Viaggio nelle regioni di frontiera con il Tibet, tra le più alte e più fredde del Ladakh, abitate dal fiero popolo nomade dei Khampa, gli stessi che aiutarono il Dalai Lama a mettersi in salvo in India nel 1959.
La strada risale l’altopiano desertico tra picchi e vette maestose, superando il valico di Taglang La (5328 m.), verso il lago Tso Morori. I monasteri gompa del buddismo tibetano punteggiano le pendici dei monti e regalano un fascino sacro al paesaggio. La città di Leh, capoluogo del Ladakh, India settentrionale, è solo a qualche ora di distanza ma sembra già di essere fuori dal mondo. A volte la distanza è più mentale che geografica, come quella che separa migliaia di profughi tibetani dalla loro terra: qui il Tibet è vicinissimo, ma irraggiungibile.Il villaggio di Poga Sundo è una manciata di casupole bianche che macchia il brullo altopiano dove vivono decine di famiglie tibetane fuggite dalle persecuzioni cinesi degli anni ’50. I loro figli, nati in Ladakh, non hanno mai messo piede nel loro Paese. Lo sognano e lo immaginano ma il Tibet, annidato oltre le creste dell’Hymalaya, si nega al loro sguardo.
La preghiera della sera raccoglie tutti nell’unica grande stanza del villaggio. Uomini, donne e bambini avvolti nelle pelli di capra si stringono intimamente nell’aria intiepidita dagli ultimi raggi di sole. La situazione è intensa e commovente, forse perché si crede che il vento trasporti oltre confine le parole di infinita saggezza del Buddha. Le ruote della preghiera, vorticando in senso orario, fermano il tempo su volti scolpiti, in sguardi assorti e in faticose prostrazioni.
I 4.500 metri sul livello del mare di questa regione del Ladakh rendono la vita particolarmente dura. La quotidianità è fatta di gesti semplici e indispensabili per la sopravvivenza. Coltivare è difficile per la grande aridità del suolo oltre che per il freddo notturno e invernale. Di giorno il sole è molto intenso e la vegetazione è pressoché inesistente.
La pastorizia è l’attività principale di questa popolazione e le mandrie di yak e capre sono una garanzia di sopravvivenza per il latte, la carne, la pelliccia e lo sterco (unico e indispensabile combustibile) che forniscono. Molte famiglie seguono quindi le mandrie alla ricerca di pascoli stagionali e vivono accampandosi con le tende sulle montagne più alte, oltre i 5.500 metri.
Gran parte di questi uomini, che conducono una vita semi-nomade, appartengono al fiero popolo tibetano dei Khampa, gli stessi che aiutarono il Dalai Lama ad attraversare l’Hymalaya nel 1959 e a fuggire in India. Antica stirpe di guerrieri che fu perfino alleata di Gengis Khan, oggi condivide lo stesso triste destino degli altri rifugiati: la proibizione di ritornare nella propria terra.
C’è un medico che si occupa di loro e che, una volta al mese, li raggiunge nei pascoli d’altura per assisterli come meglio può nella loro difficile esistenza. Il dottor Dhondup è una persona molto sensibile, decisa, generosa, caratterizzata dalla tipica calma buddista. Anche lui esule dal Tibet, ha deciso di dedicarsi ad aiutare i suoi “fratelli” sparsi sulle montagne.
Non sa dove si trovino ma li cerca con tenacia seguendo piste impossibili con il fuoristrada. A volte a piedi. Ovunque riceve una affettuosa ospitalità. Ma qui non si agisce in cambio di qualcosa. La sua ricompensa sarà la purificazione del karma e il sapere che la sua visita mensile ha già salvato molte vite nel corso degli anni.
Nel 1959, dopo il fallimento della rivolta di Lhasa contro i cinesi che avevano invaso il Tibet, circa 85.000 tibetani lasciarono il loro paese rifugiandosi in India. Gli inizi per i rifugiati furono estremamente duri, con condizioni di vita molto difficili nei cantieri per la costruzione di strade.
All’ appello di aiuto del Dalai Lama, vari stati dell’ Unione Indiana risposero assegnando aree forestali che potevano essere disboscate e convertite all’ agricoltura.
Il ruolo svolto da questi insediamenti è stato fondamentale per assicurare la sopravvivenza dell’identità tibetana e il mantenimento della cultura in esilio. Si tratta di comunità di varie migliaia di persone che vivono relativamente isolate. Naturalmente non mancano gli scambi con le popolazioni locali, ma la struttura omogenea delle comunità ha permesso il mantenimento delle tradizioni portate dal Paese d’origine. COSPE (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti) ha iniziato a collaborare con la comunità tibetana in India nel 1997. In particolare con programmi di sviluppo agricolo e di promozione dell’agricoltura biologica nei 12 principali insediamenti tibetani in India, situati negli stati del: Karnataka, Orissa, Chhattisgarh, Arunachal Pradesh, Maharashtra, Ladakh dove vivono circa 60.000 persone. http://www.cospe.org/
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Testo e foto di Angela Prati