Capitale di un Paese dove l’influenza dei capi tribù del nord bilancia quella del potere centrale, questa splendida città vede purtroppo assottigliarsi il flusso turistico, una della sue maggiori risorse.
Lo Yemen sta vivendo una condizione di delicato equilibrio. Che riflette le difficoltà del governo impegnato a combattere il terrorismo di Al-Qaeda per accreditarsi come partner politico credibile presso i Paesi ricchi e nel contempo contenere l’insoddisfazione interna per una politica vissuta come atto di sudditanza nei confronti di quegli stessi Paesi. Equilibrio reso ancor più precario dopo che il presidente Saleh ha respinto l’offerta di cessate il fuoco dei ribelli sciiti del nord, perché non contiene la promessa di terminare gli attacchi all’Arabia Saudita e la guerra minaccia di continuare. Immaginate una Venezia, costruita in precario, delicato equilibrio sulla sabbia anziché sull’acqua. Questa è Sana’a,
la capitale dello Yemen che tra poche settimane, o anche solo tra pochissimi giorni, come le accade ormai ciclicamente, potrebbe tornare a chiudersi nelle sue ancestrali tradizioni e contraddizioni, impenetrabili all’uomo occidentale. Per gli arabi l’ospitalità è sacra, ma quella probabilmente concessa a Osama Bil Laden e ad altri cospiratori di attentati legati ad Al Qaeda, che si anniderebbero nel paese, potrebbe costare molto cara. Se, infatti, come sembra sempre più plausibile, venisse scagliata una serie di attacchi da parte delle forze militari americane per stanare ed eliminare i terroristi dai loro presunti rifugi, lo Yemen uscirebbe “temporaneamente” dalle mappe dei viaggiatori che da sempre sono attratti dal fascino millenario di questa terra. Anche Pierpaolo Pasolini decantò la fragile bellezza di Sana’a– “la stessa delle città italiane”, l’incanto delle sue case torri slanciate verso le nuvole, con le infinite cellette e finestre a forma di mezzaluna. Questi palazzi paiono castelli di carte impolverati sempre uguali da un secolo all’altro, che da quasi 500 anni resistono miracolosamente quasi a voler tramandare la fiaba di questa città il cui nome significa appunto “forza”, “vigore”. Camminando per la stradine strette della città vecchia, si capisce subito che non è leggenda il detto secondo il quale a Sana’a si possa passeggiare per un chilometro quadrato senza mai incappare in un edificio moderno. A fondarla sarebbe stato Sem, il figlio di Noè, ma la sua fama risale al 1500 quando cominciarono ad essere eretti i primi “grattacieli”, palazzi che paiono ricoperti di pizzo, che sfoggiano finti archi disegnati con la calce, decorati con fiori, anfore tratteggiate e circondati da moschee e minareti “missili”. Tutt’intorno una cornice di colline come di cartapesta orlano Sana’a e le
sue 18 mila case torri. Sino all’unificazione dello Yemen, la città vecchia era aperta solo dall’alba al tramonto, chi sopraggiungeva alle sue porti prima o dopo, doveva restare fuori. Oggi, per fortuna, la si può percorrere nei 60 km² del suo perimetro a tutte le ore del giorno da quando le prime luci albicocca si riflettono sulle mura ocra dei palazzi sino al calare del sole. E proprio le case merlettate sono capaci di raggiungere persino gli otto piani, il primo in pietra, riservato agli animali e al magazzino, il secondo e il terzo, realizzato con fango e paglia, spettano invece alle donne e ai bambini, il quarto e quinto agli uomini, mentre il sesto, il Mafradj, è una terrazza panoramica dove gli uomini si ritrovano per masticare il qat. Le foglioline simili alla nostra rucola che il 90% dei maschi yemeniti e il 40% delle donne fanno danzare da una gota all’altra sono un’abitudine antica, che i genitori tramandano ai figli, ignari o forse semplicemente indifferenti degli effetti dannosi per la memoria. Salendo sui tetti dell’Hotel Palace nel quartiere di Al Ahbar si resta incantati dallo spettacolo che l’architettura di questa città sa regalare: le case sono tutte addossate le une alle altre, esibiscono vetri colorati, balconi di cedro finemente lavorati, usci e spioncini a forma di goccia e porte in legno intarsiato dotate di due battenti, uno posto più in alto e più robusto e una più in basso e leggero, riservati rispettivamente al tocco dell’uomo e della donna per non sorprendere e imbarazzare gli abitanti delle case. Da quassù si riconoscono gli orti verdi, che servivano alla popolazione di Sana’a per garantirsi la propria sussistenza allorquando la vecchia città fortificata chiudeva i battenti nel corso delle tante guerre in cui lo Yemen settentrionale è stato coinvolto. Seguiti da un nugolo di bambini festanti,
annusando il profumo del pane caldo, si raggiunge la Dar jami Al Kabir, la grande moschea costruita sulle rovine del giardino del governatore Sasano nell’VIII secolo e poi ristrutturata quattrocento anni dopo, e poco distante il Samara al Mansur dove si possono ammirare pregevoli opere di arte grafica antica e contemporanea custodite al National Art Center. Basta seguire lo sciame di uomini che mostrano fieri il pugnale decorativo dalla punta ricurva, la jambia, penzolante dalla cintura ricamata, ed ecco come d’incanto che ci si ritrova nel Suq Al Milh, letteralmente il mercato del sale, anche se non v’è più traccia delle botteghe ove si trattava “l’oro bianco”. Questo mercato è una città nella città, una babele di mercati, addirittura 40, raccolti in poche centinaia di metri. Bancarelle di gioielli, “pareti” di datteri, caravanserragli in cui da secoli ci si muove tra piramidi di uva secca: è un’esperienza mistica passeggiare tra queste genti ottomane, yemenite, dagli occhi grigi e azzurri profondamente intensi. Sfiorati da taxi-carriole e cocomerai proclamanti la bontà della propria merce, si giunge al castello fortezza del governatore turco risalente al XVI secolo ora trasformato in un posto di polizia, si sbircia dentro i frantoi di olio di sesamo dove i cammelli trascinano la mola, e si ascoltano i discorsi della gente, sino al tramonto. Quando è l’ora giusta di partire alla volta del Wadi Dhahr,il palazzo sulla roccia, accoccolato su di una guglia rocciosa. Quella che fu la residenza estiva a cinque piani di un imam, che se lo fece erigere sul finire del ‘700, è l’esempio più strabiliante dell’arte yemenita. E si capisce allora perché, secondo un proverbio locale, in ogni yemenita, sotto sotto, si celi un architetto.
Testo di Luca Berganin – Foto di Graziano Perotti
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