Disegnata da Le Corbusier, la capitale del Punjab Orientale indiano è stata pensata come un corpo umano. Una creatura del mito che affronta e vince le sfide di un futuro incalzante.

Nel panorama indiano, così vasto e sfaccettato e tuttavia così identificabile in un preciso cliché dal nord al sud, la città di Chandigarh rappresenta un’eccezione: potrebbe essere altrove, di sicuro non in India, di cui non possiede, a prima vista, la millenaria cultura abitativa, l’aspetto esteriore (il folklore, per noi occidentali), l’atmosfera di miseria e nobiltà, i colori e gli odori, le folle immense e il traffico caotico, le bici, i carri e i grovigli inestricabili di vacche sacre. Chandigarh, città laica, pare

lasciar spazio alle mille fedi e problemi che dilaniano la più grande democrazia del mondo, stemperandoli nella sua atmosfera sospesa e nella sua struttura a misura d’uomo universale. Infatti è profondamente diversa: è una città di fondazione, nata dal nulla come capitale del Punjab orientale, attribuito all’India dopo la spartizione con il Pakistan nel 1947. Ne decise la costruzione il premier Jawaharlal Nehru: doveva essere “un simbolo della libertà dell’India, sciolta dalla tradizione, un’espressione della fede nel futuro nella nazione”. Ma di lui si ricorderà anche che volle, al momento della Costituzione dell’India Repubblicana, a fianco delle istituzioni parlamentari scrupolosamente copiate dalla Gran Bretagna, espliciti richiami alla storia nazionale e ai valori trasmessi dagli imperatori tolleranti, di fede mussulmana, Akbar e Ashoka. Perché l’India è il Paese che meglio ha saputo conservare la propria memoria storica pur raccogliendo la sfida della modernizzazione. Chandigarh ne è l’esempio più eclatante e lo è anche di un concetto che si ritrova nel pensiero del Mahatma Gandhi: “l’identità indiana è spaziosa e assimilativa, pluralista e ricettiva, inclusiva e umanista”. Visionario e insieme pragmatico fu insieme Le Corbusier: dice la leggenda che nel 1951, quando gli fu chiesto di progettare la città, buttò giù di getto in meno di due ore il progetto di quella che doveva diventare Chandigarh. In conformità alla sua idea che “le città sono un fenomeno biologico: hanno un cuore e organi indispensabili al compimento delle loro funzioni”, Chandigarh è stata edificata come un organismo umano; la testa e il cervello sono il Campidoglio e l’Università, il cuore e lo stomaco sono il centro dei commerci, le membra sono i settori industriali. Le strade per la circolazione dei mezzi sono larghe e non intaccano il centro pedonale, programmate nel tempo per lo sviluppo del traffico così da lasciare fuori dai quartieri residenziali quello pesante. La città, dove oggi vivono 900 mila persone e circolano almeno 225 mila veicoli a motore, può assorbire senza problemi un progressivo incremento delle motorizzazione per altri cinquant’anni. A Chandigarh ci sono poi un lago, il Sukhna lake, e alcuni rilievi che movimentano il paesaggio urbano, filari di roseti lungo il fiume (in ricordo, forse, della perduta Lahore e dei suoi giardini di rose), vaste aree

botaniche in molti settori, veri e propri polmoni cittadini, una “leisure valley”… ma soprattutto ci sono magnifici edifici pubblici, realizzati nel caratteristico stile sopraelevato che ha influenzato anche numerose strutture private. Il cemento regna ovunque sovrano e non sempre ha retto agli insulti delle intemperie locali e al disinteresse delle amministrazioni. Ma un viaggiatore che si rechi oggi nel Punjab (o nell’altro stato dell’Haryana, nato da una successiva suddivisione tra le maggioranze sikh e hindu, che aspiravano ciascuna alla capitale Chandigarh, affidata invece a entrambi con salomonica decisione e amministrata dal governo centrale) non può che mostrarsi stupefatto di fronte all’audacia della concezione di questa città profondamente diversa da qualsiasi altra città indiana. Anche se nella sua storia, il tempo ha fatto la sua parte. Perché se è vero che Chandigarh ha il coraggio di essere “non indiana”, come la vollero Le Corbusier e la sua squadra, in primis Pierre Jeanneret e gli inglesi Max Maxwell Fry e Jane Drew, coadiuvati da un gruppo di urbanisti indiani, oggi, per il modo in cui la città è cresciuta in questi cinquant’anni e più della sua vita, per come la vegetazione e lo stile di vita indiano hanno rivestito e mascherato il cemento e si sono impossessati del razionale disegno urbanistico della città, Chandigarh è più che mai “indiana” nel cuore e nella mente, pur con la sua struttura antropomorfa scandita da una griglia geometrica di 54 settori, un intreccio di strade che si intersecano perpendicolarmente senza una curva o una deviazione dal disegno ortogonale, così come altrettanto geometriche sono le abitazioni. Ma se poi si osserva la Corte di Giustizia, si nota che il grigio del cemento è ravvivato dai

colori che, insieme con archi e quadrati frangisole, ricordano le fastose sale dei sovrani moghul. E i riferimenti alla tradizione architettonica, a ben guardare, sono molto numerosi anche in altri edifici. Insomma, a dispetto di tutto a Chandigarh si vive bene: è una delle città più prospere e tranquille dell’India, dove la struttura urbanistica con la sua griglia così egualitaria e il suo ordine severo e spartano ha contribuito a un senso di ordine e razionalità sconosciuto alle altre città indiane. Ma è anche un luogo magico e affascinante, dove la vita ha preso il sopravvento sull’utopia.
Testo di Paolo Rinaldi – Foto di Fausto Giaccone www.faustogiaccone.com
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