In origine era l’Hortus Simplicium quando i semplici altro non erano che i medicamenti tratti dalle erbe. Era il 1545 quando fiorì il più antico Orto Universitario di tutto il mondo. Solo secoli dopo questo delizioso giardino medicamentoso nel cuore di Padova, divenne l’Orto Botanico. E da allora non smette di stupire.
Se ne sta quieto e nascosto appena dietro l’angolo di una delle piazze più frequentate, caotiche e affollate della città, piazza Sant’Antonio. Folle di fedeli sciamano dentro la grande basilica e sul piazzale; animazione, frastuono. Poi, giri l’angolo, ti trovi su una stretta calle antica carezzata da un canale: e sembra un altro mondo. Ed ecco l’antico Orto. Capisci subito di essere in un luogo speciale. C’è un’aria sonnolenta e paciosa, di provincia un poco dimenticata, dai ritmi quieti e bonari. Persiste un odore antico, un sentimento del tempo che fu. E’ come se il Rinascimento e poi l’Illuminismo e il Positivismo ottocentesco avessero lasciato qui il loro testamento scritto nel verde. L’Orto si è allargato nei secoli, ma la sua pianta originale resta visibilissima. E’ un cerchio perfetto con un quadrato inscritto al cui interno sono collocate le aiuole. Alla sommità del muro di cinta, corre una balconata in pietra d’Istria circolare e sospesa, così perfetta e assolutamente classicheggiante, un
sunto d’architettura settecentesca. Come del resto i quattro grandi portali d’accesso, con i cancelli elaborati e le piante in ferro battuto a sovrastare il tutto. Le tracce della Storia sono ovunque. Anche se il testimone più illustre è ad oggi, vivissimo. Si tratta di una antichissima palma di S. Pietro meglio nota come la ‘Palma di Goethe’ piantata addirittura nel 1585. Era nel vivo del suo ’Viaggio in Italia’ il grande poeta, quando passò di qui soffermandosi a meditare sotto queste fronde già vetuste nel 1786 durante il suo passaggio. E’ un esemplare prezioso da ogni punto di vista, arboreo e storico, e come tale conservato e annidato dentro una serra tutta sua. A onor del vero la grande serra è piuttosto sgraziata, tanto da sembrare una costruzione da palazzinari del giorno d’oggi, mentre invece risale al 1874. Purtroppo la necessità di protezione, impedisce di coglierne la possanza, ma sotto le sue fronde e sotto la lapide che ricorda il passaggio del poeta si sente un brivido. Alle spalle del grande albero, ecco il regno delle Ninfee. Arrivano da tutti i continenti e sono
così belle e perfette da sembrare irreali. Grandissime foglie verdi coperte di goccioloni di rugiada, purissimi come cristallo: ed ecco l’India, quella dei palazzi dei Maharaja. Altra vasca, altro mondo: foglie larghe come ombrelli tra cui svettano fiorelloni rosati, come essere nell’Asia sub tropicale. Sul bordo, le più eleganti, quasi zen, prive di fiori, solo enormi foglie come vassoi vegetali dai bordi ripiegati. Tutte galleggiano con il loro portamento riposante per l’occhio e lo spirito. Gli spicchi del giardino sono divisi in particelle dove crescono fiori, specie erbacee e arbusti, piante endemiche rare o quasi estinte; una collezione splendida di erbe medicinali, storiche e comuni. Sugli spicchi delle aiuole, vigilano i grandi alberi. A nord ovest il grandioso ginkgo biloba, un bel maschio su cui è innestato un ramo femminile; al centro l’antica magnolia, che si dice sia la prima arrivata in Italia. Le aiuole sono vetuste da fare tenerezza e in sottofondo si ode il gocciolio della fontanella circolare, pure lei vecchiotta. Nella vasca inferiore alloggia la Spirodela, una specie acquatica delicata, a foglioline fittissime che tappezzano il rotondo specchio d’acqua. Tutto attorno gli uccellini richiamano la bella estate che non arriva, il vento muove le foglie carnose dei banani e le fronde fittissime dei platani. Poca gente in giro e la sensazione di essere in pace con il mondo.
Non c’è angolo che sia disorganico. Ai piedi del muro di cinta una infinita teoria di vasi in terracotta circondati da erbette lussuriose. Di ogni cosa c’è un doppio, ogni vaso, ogni cancello, ogni rampicante ha il suo gemello a lato. Un ordine superbo di un mondo armonico e semplice. Fuori le mura, ecco le serre con le collezioni incantevoli di piante carnivore, con un’aria da fumetto e le meravigliose orchidee, che farebbero impallidire Nero Wolfe. Proseguendo oltre le serre, si finisce in un angolino delizioso dove è bene attendere di esser soli per sentirsi improvvisamente in una puntata di Elisa di Rivombrosa. E’ un recesso tondeggiante, verdissimo, su cui si spalanca la Porta Est del muro di cinta. In mezzo alla verzura sorridono ineffabili quattro busti marmorei e una statua: dalle sembianze queste figure femminili sembrano tre nobildonne antiche e un bacco ridente, e la figura intera uno strano re guerriero. Invece si tratta delle quattro stagioni e la statua è re Salomone, come è giusto che sia visto il luogo. Sotto gli sguardi beffardi delle settecentesche allegorie marmoree, si prosegue verso le ultime sorprese dell’Orto incantato. Sdraiato e nero ecco il fusto fossile di una quercia del 700 A.C, un inusuale, eccellente reperto archeologico di origine vegetale. Sereni, acquietati, convinti che esista una natura benigna che accorda i suoi doni al genere umano, usciamo dal sublime Hortus Simplicium a malincuore, come quando si abbandona un bel sogno.
Testo: Lucia Giglio Foto: Eugenio Bersani
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