La natura è arte e i parchi sono il suo museo. Paesaggi grandiosi, montagne, laghi, alberi bruciati o caduti come le colonne di un antico tempio, foreste lasciate al loro aspetto naturale senza l’intervento dell’uomo neppure in caso d’incendio. Questa è la filosofia USA per la conservazione delle aree naturalistiche protette.
Estensioni sconfinate di natura selvaggia, pochissime strade e nessun rifugio. 650 km da nord a sud, la Sierra Nevada è un concatenamento di picchi e boschi dove camminare per giorni e giorni in completa autonomia, incontrando più facilmente un orso che un ranger. Gli americani chiamano questa attività backpacking, richiede ovviamente buone gambe e spalle robuste per portare zaini enormi. Niente a che vedere con l’antropizzazione delle nostre Alpi, dove i sentieri conducono quasi sempre a tavolate imbandite di turisti con boccali di birra in mano e piatti di polenta al capriolo. Agli americani
piace così. Nei confronti della natura mostrano la stessa spartana mentalità dei loro nonni pionieri che occuparono queste terre. Tuttavia in estate il turismo in alcuni parchi è così elevato che bisogna prenotare persino i campeggi, a meno di non arrivarci molto presto al mattino. Lo Yosemite National Park in California, regno dell’alpinismo e del free climbing, fa un certo effetto. L’affollamento della valley, dove si trovano il village, i ristoranti, i lodge e altri confortevoli servizi, rende impensabile – per chi non lo sa – immaginare il silenzio di Toulmine Meadows e degli altopiani alti lungo la Tioga road. L’ingresso della gola è davvero monumentale, delineata a nord dal profilo di granito
del Capitan, che coi suoi 900 metri di roccia pura richiama i rocciatori di tutto il mondo. A immortalarla per la prima volta con la sua famosa Hasselblad, negli anni ’20, fu Ansel Adams (1902-1984), considerato il padre della fotografia di paesaggio americana. L’inventore del sistema di esposizione zonale che ha fatto dello Yosemite il suo atelier. Grande camminatore e alpinista, all’età di 17 anni entrò a far parte del Sierra Club di cui divenne consigliere. Oggi nel village c’ è una galleria a lui dedicata che espone le stampe in bianco-nero più celebri. E’ qui che ho acquistato un libriccino che mi ha molto
incuriosito: The Photographer’s Guide to Yosemite. In copertina c’è una foto dello Half Dome al tramonto, la gigantesca cupola di roccia che sembra tagliata a metà, ripresa con un teleobiettivo dal belvedere di Glacier Point. Comincio a capire perché gli americani sono i maestri della fotografia di paesaggio. Alcune delle strepitose inquadrature ritratte da Ansel Adams – e da altri celebri fotografi come Galen Rowell – le ritrovo affacciandomi dai view point lungo la strada. Uno di questi è Bridalveil View, dove ogni sera il sole dipinge un arcobaleno sulla cascata,
o Cathedral Beach sulle rive del fiume Merced, nelle cui acque si specchia l’austero profilo del Capitan. Basta avere un po’ di fortuna con la luce. Di fronte a tanta bellezza a portata di mano – indicata nella guida con puntigliosa precisione – è facile immaginare come la fotografia naturalistica da queste parti abbia acquisito popolarità, accresciuta con l’avvento del digitale. Al tramonto i belvedere si affollano di amatori col cavalletto e, in alcuni casi, bisogna fare letteralmente a gomitate per ritagliarsi
uno scorcio di panorama. C’è di tutto, dal gruppo di adolescenti col telefonino, al tradizionalista in pellicola e perfino chi monta un banco ottico per fissare in una lastra un dettaglio o un insieme. L’estetica del paesaggio ha un valore e un’autorevolezza a cui in Europa non siamo abituati. Lo potremmo pragonare al sentimento che da noi si prova di fronte alle opere d’arte e ai monumenti dell’antichità classica. Qui la macchina fotografica non è solo uno strumento per memorizzare un luogo, ma un modo di interpretarlo, di farne esperienza. Ansel Adams aveva cominciato percorrendo a cavallo le foreste e le montagne della Sierra. Oggi l’Eldorado dei fotografi si è spostato nelle Canyon-lands, tra Utah, Colorado e Arizona, dove le rocce si svuotano consumate dall’acqua e dal vento, scolpite da gole sinuose e da giganteschi archi naturali. Lo Zion National Park è uno dei tanti. Arrivarci al tardo pomeriggio per la strada che risale il Kolob
Canyon è uno spettacolo da non perdere. Il tramonto satura i colori al punto che le falesie sembrano prendere fuoco, incorniciate dal contrasto di verde della vegetazione arborea che cresce intorno. Sfruttando la calura estiva, molti escursionisti guadano a piedi il Virgin River, immergendosi nell’acqua fino alla cintola, per raggiungere l’interno delle gole dove le pareti
salgono ripide per decine di metri. La meta più ambita è però la subway, ironico appellativo che richiama la stazione di una metropolitana, per indicare una galleria naturale scavata lungo il ramo sinistro del fiume North Creek. Le rocce aggettanti si curvano fino a toccarsi, chiudendo la vista del cielo, mentre in basso un velo d’acqua trasparente scorre su un tavolato di arenaria color porpora, perfettamente lucidato e levigato, formando cascatelle, toboga e piscine naturali. Per arrivaci, si cammina due ore dentro la valle, seguendo
una traccia di sentiero (necessario prenotarsi in anticipo al visitor center perché il numero è limitato). Ma la più recente delle scoperte fotografiche si trova nella riserva di Grand Staircase Escalante National Monument. Sono solo pochi metri quadrati di roccia nel mezzo di un deserto arido e spietato, privo di rifornimenti d’acqua (sconsigliato in estate). Anche trovare il sito è una specie di caccia al tesoro, ma se ci arrivi lo riconosci. Una sequenza di onde di arenaria rossa sono state compresse e modellate dai movimenti tettonici della terra. Le rocce si piegano, curvano, si lanciano in fuga lasciando sulla superficie un intarsio di striature ocra. Quando i raggi del sole scendono trasversali, ne evidenziano le luci e le ombre. La loro perfezione è paragonabile a un giardino zen.
Testo: Giulia Castelli Gattinara Foto: Mario Verin
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