Tutti i viaggiatori citati sinora, hanno attraversato l’Italia in carrozza, calesse, portantina, per via fluviale o per mare. Esiste però una tradizione di viandanti che, ultimi eredi dei pellegrini medievali, sono i primi interpreti della vocazione romantica ottocentesca.
In particolare, lo scrittore Johann Gottfried Seume è un eccentrico che vuol viaggiare liberamente, “senza la prigione della carrozza” e descrive nel suo Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802 (Passeggiata a Siracusa nell’anno 1802) questo insolito tour dell’Italia. Seume proprio
perché viaggia a piedi, segue itinerari non convenzionali e sceglie strade che gli consentono di scoprire luoghi che sfuggono ai viaggiatori che percorrono in carrozza le rotte obbligate delle stazioni di posta. Parte da Lipsia a dicembre del 1801, compiendo percorsi medi di circa trenta chilometri al giorno. Con ritmo da marciatore raggiunge Trieste a gennaio, Roma e Napoli a marzo. Dalla Campania si imbarca per Palermo e compie il giro della Sicilia. Ritorna nel capoluogo dell’isola alla fine di aprile. Da Napoli risale a Roma lungo l’Appia, e percorrendo la Cassia giunge a Firenze. Il 14
giugno lascia Milano e cammina alla volta di Zurigo. Seume viaggia come un hippy dei giorni nostri: il suo bagaglio è uno zaino di pelle di foca carico di libri, un bastone nodoso che gli è compagno fedele nelle circostanze difficili e un abito, lo stesso, che indossa per tutti i sei mesi del viaggio. I volumi che porta nello zaino sono la testimonianza delle ragioni che lo conducono sulla via dell’Italia. Omero, Virgilio, Anacreonte, Tacito, Svetonio, Catullo, Properzio, Orazio sono le letture di viaggio di questo spirito singolare. A differenza di tanti suoi predecessori, che si muovono con un medesimo bagaglio ideale, Seume non è un saccente, si serve con
discrezione e con ironia della sua cultura, non si traveste da intenditore d’arte. La sua scrittura non cede a suggestioni pittoresche, né si lascia andare a languori romantici. È uno spirito pratico che osserva con attenzione e lucidità il contesto reale in cui si muove, curioso di scoprirne gli aspetti meno arcaici e “sentimentali”. Dal suo viaggio a piedi emerge un’Italia provinciale scoperta per vie traverse: “la gente mi ripeteva che era da matto voler andare da Trieste a Venezia attraverso le montagne e mi dicevano che avrei rischiato di lasciarvi la pelle; ma io non mi lasciai convincere e mi dissi ancora una volta verso le montagne, non però per la stessa
strada carrozzabile”. Questa è la filosofia del suo viaggiare alla quale resta fedele. Le montagne che incontra “già per la loro natura aspre e squallide, erano anche malsicure, perché, come quelle del Genovesato, rifugio di tutta la marmaglia degli stati vicini”. Le ricorrenti note sul cattivo stato delle strade, dei canali e degli argini dei fiumi, sulle inondazioni e sulle precipitazioni atmosferiche, non sono commenti pittoreschi ma tragici eventi che producono devastazione, miseria e morte. Seume è tra i primi a portare al centro dei suoi interessi il problema del suolo e dei regimi idrogeologici. Se attraversasse oggi quelle contrade del Polesine, dell’Appennino
calabrese o ligure lo spettacolo, in alcuni tratti, non sarebbe molto diverso da quello che vide circa due secoli fa. Questa penisola che si sgretola sotto la pioggia, dove i fiumi corrono all’impazzata, dove gli argini non reggono è un paese in balia delle forze della natura che tanti suoi contemporanei (tra cui Johann Wolfgang Goethe) vedono al contrario come spettacolo pittoresco, terribile, e poi romantico. Seume ne coglie la concreta drammaticità. E va, di conseguenza, letto in questa luce: come erede di una tradizione illuminista che non guarda ai grandi sistemi, ma sa calarsi nei minuti e pratici aspetti della società civile che sono comunque il tessuto di una convivenza fondata sul rispetto di bisogni primari di
interesse collettivo. Seume va oltre lo spettacolo magniloquente delle reliquie dell’antico e i santuari dell’arte. Che sia un osservatore disinibito lo mostra l’ironia con la quale, giunto alle fonti del Clitumno, nota che esse “vengono contaminate con perfetta incoscienza da asinai e lavandaie, sebbene siano belle come al tempo in cui Plinio le descrisse”. Davanti a opere pubbliche, come acquedotti porti, strade che incontra nello Stato pontificio il suo spirito anticlericale sembra quietarsi. Quando visita la Reggia di Caserta non può fare a meno, dopo aver descritto i giardini, la cascata e l’architettura, di concludere che “raramente si
potrà trovare in qualsiasi altro luogo una simile magia”. Seume non è interessato principalmente all’arte o alle grandi città. La sua attenzione è rivolta al territorio. Così la valle da Aversa al Vesuvio “è il più bel luogo che io abbia veduto in tutto il vecchio e nuovo mondo, dove la natura ha dispensato i suoi doni fino al limite dello sperpero”. In Sicilia, parte centrale del suo viaggio, a cui dedica circa metà delle 220 pagine scritte sull’Italia, dopo tanto girovagare sconsolato osserva che “le cose qui vanno ancor peggio di quanto vadano di solito”. Gli si apre il cuore quando attraversa la Conca d’oro dove la campagna “è la meglio coltivata di tutta la Sicilia”. Seume non concede eccessi letterari quindi, governa le sue emozioni e la sua penna con giudizio, collocandosi così su un fronte diverso da quello tipico della tradizione del Grand Tour.
Testo di Giovanna Scatena Foto archivio
Della stessa serie:
1 – Un tuffo nel passato: l’Italia del Grand Tour
2 – Gli inglesi e il Grand Tour in Italia
3 – I francesi e il Grand Tour in Italia
4 – I tedeschi e il Grand Tour in Italia