Nel viaggio di ritorno verso casa la Cina si estende di fronte a me come un continente sconosciuto di cui non so niente: il mio immaginario è popolato solo da occhi a mandorla, bacchette, risaie, il ritratto di Mao che fa bella mostra di sé in piazza Tianan’men e la Grande Muraglia che si snoda al nord del paese. Mi figuro uno stato arretrato che, al di fuori delle megalopoli di Hong Kong e Shanghai, gravita attorno all’agricoltura e all’industria di più bassa qualità, con piccoli villaggi persi tra le risaie in cui le tradizioni continuano immutate. Non potevo sbagliarmi più grossolanamente. La
prima città che visito, Kunming, me lo dimostra con l’ordine e la pulizia che caratterizza i suoi ampi viali. Nelle strade trafficate scorrono auto di grande cilindrata e scooter elettrici. Kunming, la capitale dello Yunnan, è una città moderna di dieci milioni d’abitanti di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Cerco qualcosa di più genuino, di più vicino a quello che è la mia personalissima immagine di Cina rurale: cerco i segni del tempo, il pittoresco, i ritmi perduti che di certo non sono qui. Mi dirigo verso ovest, lontano dai percorsi turistici che portano verso il Sichuan, e mi trovo a Kaili, un posto che non compare nemmeno sulla mia mappa; quella che pensavo essere una sonnacchiosa cittadina spersa nella campagna cinese è in realtà una grigia megalopoli in cui il cemento impera sovrano. Kaili è un grosso centro commerciale che le minoranze etniche della regione, tra cui spiccano i miao, affollano per cercare di vendere la loro mercanzia. Le donne miao hanno complicate acconciature con grossi chignon che sono tenuti fermi da pettini, spilloni e fiori finti che vengono però, per la maggior parte del tempo, nascosti da un telo rosa: tempo fa per ricoprirsi il capo venivano usati eleganti foulard ricamati a mano ma al giorno d’oggi si vedono solo ed ovunque più comodi e sgargianti asciugamani. Per trovare il villaggio della mia immaginazione bisogna andare ancora più lontano. Ci provo con Xijiang, ad un’ora d’autobus da
Kaili: altro fallimento. Quello che una volta doveva essere un tipico centro miao è stato completamente rasato al suolo e ricostruito con più cemento, più acciaio, più centri commerciali e più parcheggi per gli autobus di turisti cinesi. Sicuramente un retaggio della Rivoluzione Culturale (“tutto ciò che è vecchio dev’essere distrutto”), il governo cinese ha pochissimo interesse nel preservare intatto il proprio patrimonio culturale e costantemente “abbellisce” i posti che cominciano ad essere toccati dalla curiosità dei viaggiatori perché possano accogliere i numeri sempre crescenti di un turismo interno che si sviluppa assieme all’arricchimento del paese: demolire e ricostruire.Finalmente, dopo altre due ore di autobus su strade tortuose sotto una pioggerellina fine, trovo la Cina che cercavo: il villaggio di Langdé mi dà il benvenuto con le sue case di legno a due piani e tetti di tegole grigie assediate dal muschio, ponti coperti su rivoli placidi e polli che scorrazzano su è giù per le scale di sasso nero. Piccoli villaggi arroccati tra risaie a terrazza compaiono all’orizzonte e le nuvole che si muovono basse rendono il panorama ancora più affascinante. Le donne miao coi loro copricapi e addobbate di monili d’argento (metallo che nella loro tradizione scaccia gli influssi maligni) lavorano alacremente nei campi; solo qualche raro uomo si vede al lavoro, intento a dissodare le fangose risaie con l’aiuto di un bufalo.
L’onda del progresso cinese qui non è ancora arrivata: la vita prosegue serenamente tra i ritmi della semina e del raccolto e, se non fosse per i cellulari che anche il più povero dei contadini sfoggia, si potrebbe pensare di essere tornati nel Medioevo. Un sentiero che parte da Langdé si snoda per una ventina di chilometri tra foreste, risaie e attraversamenti di fiumi e torrenti, tocca villaggi e gruppi di case sparse che raramente vedono l’uomo occidentale: gli abitanti incuriositi cercano ogni volta di intavolare impossibili conversazioni che finiscono tra scambi di sorrisi ed incomprensioni. Le case di legno e pietra di Nan Meng e di Bao Dè finalmente corrispondono a quell’idea di Cina che m’ero fatto ed è bello potersi immergere nel frutto finalmente concreto della propria immaginazione: vicoli tortuosi, scale scivolose che si inerpicano al di là delle nuvole, bambini che ti salutano dai balconi di legno, vecchi che giocano a carte sotto una tettoia, grossi cappelli conici a proteggere gli abitanti dalle intemperie, alunni schiamazzanti che escono da scuola e ti circondano festosi, contadini che ti guardano curiosi ed increduli, senza però smettere di lavorare, e le donne che ti accolgono con un sorriso fatto di occhi brillanti. Il ritorno verso la civiltà si fa fermando con un vigoroso gesto del braccio un autobus stracarico d
i persone; una lunga serie di curve lascia dietro i monti l’immagine di una Cina che sta scomparendo. Forse qui le ruspe dell’abbellimento non riusciranno ad arrivare, forse gli autobus di turisti con guida e megafono si accontenteranno di fermarsi nella ricostruzione a grandezza naturale di sé stessa che è Xijiang e forse il viaggiatore che vuole spingersi fuori dai sentieri battuti potrà continuare a godere di una Cina non ancora toccata dalla voglia di dimenticare il proprio passato.
Testo e foto di Matteo Il blog di Matteo
Chi è Matteo?
Della stessa serie:
1 – Easy Rider
2 – Dimentica Halong Bay
3 – Sapa la vera gemma del Vietnam
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