NEW YORK: quello che le guide non dicono (Parte 1)

Sfogliate pure, visitatori di ogniddove, sottolineate con l’evidenziatore le tappe imperdibili del vostro prossimo viaggio. Ma nessuna guida è migliore del luogo stesso in cui vi trovate. Basta ascoltarne il respiro e seguirne il ritmo. A quel punto sì che sarete davvero persi. Dentro un nuovo fantastico mondo.” (Gepy l’avventuriero)

Nel cuore di Manhattan, a ventisette passi da Time Square, c’è un bar dove si parla solo lo spagnolo. Dopo aver ordinato un cafe, facendo attenzione che non me ne servano uno normal, che a NY significa con latte, prendo il mio cup e mi preparo a divorare chilometri. Proprio così. Sto per ingurgitare mezzo litro di lontanissimo parente dell’espresso da un agglomerato plastico-alimentare, uno di quelli in cui da Mac Donald ti ci servono la Coca Cola. È il modo più veloce per iniziare a vivere Manhattan da autentica newyorkese. Fingo di bere un po’ dell’infuocato caffè, visto che se lo facessi davvero le mie labbra diventerebbero un nuovo capolavoro di Picasso. Ma è servito a ingannare la città che, riconoscendosi nel mio gesto, sta già guidandomi sulla quarantaseiesima. Mi fermo davanti a un tipico negozio da 99 cents: un bazar orientale in cui si può sbrigare, in modo indolore per il portafoglio, l’inspiegabile usanza italiana di dover portare un regalo a tutti quando si va negli Stati Uniti. Sopra di me solo la verticalità cristallina di un grattacielo. Chissà quanti 0 e 1 digitati staranno cambiando il mondo in questo momento? Magari proprio da uno di questi piani che mi sovrastano… La complessità della riflessione mi spinge a saltare il discount cinese e a seguire il ritmo salsa delle streets. Salsa non per una vena latina, ma per il melting pot di possibili vite che tenta chiunque ci passeggi. A suon di congas, allora, supero la quarantesima e viro verso sud. Una giornalista americana che vive nell’East Village mi ha detto che la quarantesima è il suo off-limit. Andare oltre sarebbe sconfinare in una Manhattan che non la rappresenta. Forse anche chi vive nel lussuoso Upper East Side non scende mai negli inferi del Village. Di certo non immaginavo che anche qui ci fosse una sorta di antagonismo cittadino, un po’ come tra Roma nord e Roma sud o tra Milano dentro e fuori le mura. Il caffè è finito da un pezzo e voglio capire cos’altro può fare di me una newyorkese autentica, anzi in questo caso una newyorkese che non supera la quarantesima, visto che mi trovo all’altezza della ventisettesima. Vagando, mi trovo in uno slargo occupato da alcune bancarelle. Mi informo: è il Flea Market. Un orrido ammasso di cianfrusaglie che ogni sabato da vita a questo strano mercato per essere vendute chissà a chi. Do un’occhiata, magari scovo un Andy Warhol very original, chessò uno scarabocchio di quando era piccolo finito tra questi ciaffi per caso. E invece no, ma come distolgo lo sguardo dalla montagna di roba in cui stavo rovistando, mi rifletto in una vetrata tirata a lucido, che sembra lo specchio di Alice nelle Meraviglie. Che mondo nasconde? Senza che nessuna mappa me lo abbia segnalato, per puro caso, entro al Greenroom, tappa che nessun vero fanatico del trendy salterebbe per il brunch del sabato. E oggi è proprio sabato. La musica jazz dal vivo sembra suonata dalle piante che affollano questo locale. Ma è quell’immenso ficus benjamin a produrre l’irresistibile pezzo di Gershwin che sto ascoltando? Non esageriamo adesso, è solo che la band è nascosta da una parente stretta della foresta amazzonica. Ci sono piante e alberi di ogni tipo. Per quindici dollari pranzo e soprattutto bevo champagne.

Testo di Stefania Campanella

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