Un viaggio slow lungo il fiume Tsiribihina, seguendo la corrente al ritmo lento di un barcone. Tra villaggi autentici, natura straripante, baobab e panorami incredibili. Sempre mora mora (piano piano).
I nostri passaporti sono ammassati, insieme a quelli di tutti i passeggeri del Boeing appena arrivato, sul tavolo del doganiere sepolto dai timbri e dagli stessi documenti dietro il vetro sudicio di un banchetto. La fila si scompone, deborda, tracima e ad un tratto implode. L’omino al banchetto sembra non accorgersi del caos che si sviluppa oltre il suo naso. Mora mora, piano piano, più che un modo di vivere. Una filosofia. Benvenuti in Madagascar. Si recuperano i bagagli e si esce nell’aria frizzante della sera. Nei momenti precedenti l’atterraggio il monitor indicava 1200 metri. Nel buio di una notte senza luna e senza luci a terra ci aspettavamo ancora una decina di minuti in aria,
quando le ruote hanno rimbalzato sull’asfalto. La capitale, Antananarivo, per tutti Tana, si trova su un altopiano a 1.275 metri. Ecco il perché di un atterraggio anticipato. E il freddo della notte che ci accoglie. Il tempo di una dormita all’Hotel de France a due passi dal famoso Zoma, uno dei mercati più celebrati del mondo e ripartiamo, verso Est. Destinazione Miandrivazo. 400 km di asfalto coperti in quasi 8 ore. Ancora tappa per dormire. Siamo diretti a Masiakampy, un piccolo villaggio da dove ci imbarcheremo per la discesa del Tsiribihina, il fiume più lungo del Paese. Il barcone ci sta aspettando, il tempo di caricare i bagagli e si parte, salutati da decine di ragazzini. Il fiume è profondo solo pochi centimetri e l’equipaggio ci spinge a braccia. Nei prossimi tre giorni sul fiume, spesso ci capiterà di arenarci su banchi di sabbia. Sinuoso e marrone, lo Tsiribihina si srotola verso est, a tratti larghissimo. Stravaccati sul ponte superiore, ci godiamo la brezza e la pace, rotta solo dal tossire del motore. Ma anche questo entra a far parte della colonna sonora del viaggio, come le grida dei bimbi che incontriamo e la cantilena dell’equipaggio. Dopo un po’ non lo percepiamo nemmeno più. I pasti, a base di riso e zebù, sono affare della cuoca, una abbondante signora che chiusa nella cucina a poppa, sforna manicaretti e salsine dai nomi criptici. E’ quasi sera e il capitano si ferma in un’ansa. Hery, la nostra guida, ci porta ad Anosin Ampela, un lago alimentato da una cascata di acqua fresca dove laviamo via polvere e sudore. Una meraviglia. Così rinfrescati, ci accampiamo sulla riva opposta dove ci hanno già montato le tende, non prima di aver fatto onore alla cuoca. La notte è rischiarata da milioni di stelle e dal falò acceso. Solo due giorni fa eravamo alle prese con auto, traffico e semafori e ora siamo persi nel cuore del Madagascar, sulle sponde di un fiume sotto un manto di stelle. La prima luce dell’alba ci vede già in piedi a fotografare una famiglia di pescatori che ieri sera, nel buio totale, nemmeno ci eravamo accorti di avere come vicini. Ci accolgono con un sorriso, la ragazza più grande si sta spalmando sul viso un impasto di masonjoany, un legno che si pesta con una pietra e poi si mescola ad acqua. Una maschera di bellezza molto diffusa che le ragazze ostentano in pubblico con noncuranza. Una volta secca, la poltiglia diventa polvere e cade lasciando la pelle morbida. I bimbi tutti intorno, invece, fanno colazione. Riprendiamo il fiume e la giornata è scandita da qualche visita ad un paio di villaggi, pranzo, siesta e cena. Seconda sera in tenda. Ma prima di dormire i ragazzi e le ragazze del villaggio vicino mettono in scena, intorno al falò, musiche e balli. Seconda alba e terzo giorno sul fiume. Cominciamo a sentire la mancanza di un bagno e di una doccia. Stasera però dormiremo in un letto vero. Sbarchiamo a Belo-sur-Tsiribihina dove ci aspetta un fuoristrada per Bekopaka. Sono solo 100 km. Roba di un’ora e saremo in albergo. Sbagliato. La strada è una pista rossa in pessime condizioni cosparsa di buche. A piedi faremmo prima. Impieghiamo 4 ore e mezzo per coprire i 100 km. E quando scendiamo ci sentiamo come usciti dal frullatore. Ma abbiamo il bagno e l’acqua corrente. Nemmeno il tempo di goderceli che si parte per i Tsingy di Bemarah. Hery è andato il mattino presto ad ottenere il visto e la guida ufficiale senza la quale non si entra. Ci aspetta alle 6 poco fuori il
villaggio. Un’ora di pista per arrivare alla base degli Tsingy, montagne grigie affilate come rasoi. Per salire sulla cima dobbiamo attraversare un dedalo di crepacci, caverne e passaggi talmente stretti che i muri quasi si toccano. Siamo imbracati e abbiamo un gancio da passare in una fune d’acciaio fissata alle pareti. In caso di caduta dovremmo restare appesi. Veniamo inghiottiti dal ventre della montagna, insieme alla luce. Avanziamo con le lampade frontali. Strisciando e spingendo per un’ora, sbuchiamo da un pertugio. Davanti a noi un muro di 80 metri di roccia affilata, con una scaletta inchiodata che porta su. Si sale, senza guardare in basso. Dall’alto la vista è impressionante. Queste rocce così taglienti pare si siano formate in milioni di anni quando le piogge acide della preistoria le hanno erose, lasciando le forme bizzarre che vediamo ora. Torniamo alla jeep. Non avevamo capito quanto fosse dura la giornata e ci siamo trascinati tutto il materiale fotografico. Sudati e distrutti, dopo le 4 ore di camminata, ci ritocca la pista per tornare al Relais de Tsingy. Domani si riparte, direzione Morondava, sulla costa. Ma per spezzare il viaggio dormiremo, poche ore, alla foresta di Kirindy. Anche per cercare di avvistare l’inafferrabile Fosa, l’unico vero predatore del Madagascar. Altra pista, altra terra rossa che si infila dappertutto. Altre, tante, ore in jeep per arrivare alla foresta di Kirindy. E, in mezzo al campo, in mezzo ai bungalow dove dormiremo, placido passeggia un gattone dalla lunga coda. Il Fosa. Sembra ci stia aspettando. Smentendo la sua fama di essere elusivo, è venuto a cercare cibo qui. Fissiamo la partenza alle 3 e mezzo del mattino, Fosa permettendo. Vogliamo vedere l’alba spuntare sull’Avenue des Baobab, a metà strada tra qui e Morondava e, considerate le condizioni della pista, vogliamo essere sicuri di arrivare in tempo. Il Fosa è l’unico ad essere in piedi a quest’ora della notte oltre a noi, ma non viene a salutarci. In silenzio, lasciamo il campo. Nessuno parla per le quasi due ore di strada, impegnato com’è a respirare tra una buca e l’altra. Quando il buio lascia spazio alle prime luci, capiamo che sarà un’alba nuvolosa. Peccato, l’unico giorno in cui ci serviva una luce strepitosa per fotografare una delle meraviglie della natura. La strada dei baobab è una zona dove, ai lati della pista, si snodano alti e spettrali decine di baobab. E’ uno dei luoghi più fotografati del pianeta e ne vale la pena. Anche se oggi è grigio, questo posto emana un che di magico, una sensazione da fine del mondo. Non siamo i soli che hanno scelto di cominciare la giornata tra i baobab. Un altro paio di turisti ammirano, come noi, naso in aria, questi tronchi lisci e perfetti che disegnano nel cielo ghirigori neri, trenta metri più in alto dove finisce il tronco e cominciano i rami. Una leggenda malgascia racconta che i baobab si vantavano della loro bellezza, anche con il Creatore. Così per punirli, erano stati girati sottosopra. Così, quelle che oggi svettano in cielo non sono altro che le radici. Scattiamo qualche foto e poi verso Morondava, dove finalmente troveremo un pò di comodità. Ma le cose belle, si sa, si devono conquistare. E per arrivare a Morondava, ci aspetta ancora un bel pò di pista rossa, lo stesso colore di cui siamo ricoperti noi, la nostra auto e le nostre cose. Ma quel che è peggio è un lungo tratto di strada un tempo asfaltata, eredità francese, mai più manutenuta e che oggi è un pericolo costante. Pedoni, carretti, camion e biciclette tutti impegnati in zigzag impossibili per evitare voragini di cui non si vede la fine. Questa è il nostro tappeto rosso per l’entrata in città. Dopo tanti giorni di isolamento, sul fiume prima, nella foresta poi, ritroviamo una città vera, brulicante di vita e di attività. E troviamo anche le comodità di un bell’albergo, il Baobab Cafè, con piscina, acqua calda e aria condizionata. E ottimo cibo, tanto da meritarsi il premio come miglior ristorante del viaggio. Il tempo di una doccia e usciamo per una visita della città. Andiamo al mercato, passando per la spiaggia, molto grande e usata come alternativa alla strada, rispetto alla quale è in condizioni sicuramente migliori. Il mare invece, è sconsigliato a causa di squali e correnti fortissime. Nel pomeriggio si ritorna all’Avenue des Baobab, questa volta con il sole, aspettando il tramonto. Ma ci aspetta la sorpresa di trovarla invasa da turisti e macchine fotografiche. Sembra di essere ai piedi della Torre Eiffel. Ogni volta che passa un carretto trainato da zebù e carico di locali, scattano centinaia di flash e otturatori. Uno spettacolo nello spettacolo. Il viaggio è anche questo. La notte scende rapida, dopo un tramonto da sogno. Come si ripete da sempre. Si ritorna a Morondava, stessa pista, stesso asfalto. Pare che i cinesi abbiano fatto accordi con il Governo per sistemare il Paese. Quello che non si sa è cosa siano riusciti a farsi dare in cambio, visto che i soldi non sembra siano stati materia di trattativa. Chissà, magari la prossima volta, sull’Avenue de Baobab, invece di sentire parlare francese e fare il paragone con la Torre Eiffel, ci verrà naturale pensare alla Grande Muraglia.
Testo e foto: Vittorio Sciosia