In Nepal nella valle di Kathmandu

C’è la festa del Dashain al tempio di Dakshinkali. A dare un’occhiata al calendario nepalese, però, c’è quasi sempre una festa per cui sgozzare qualche capretto, segnarsi la fronte con un tika, onorare qualche divinità. Il tempio non è come lo immaginiamo prima di arrivarci. In una terra in cui i luoghi di culto induista e buddista sono carichi di secoli e fascino, quello di Dakshinkali ricorda le fondamenta di una palazzina popolare mai terminata. La ragione per cui si viene qui tra le colline a sud di Kathmandu, però, non è l’architettura del tempio ma quella lunghissima fila di fedeli. Hanno speso un bel gruzzolo di rupie per un gallo o un capretto da offrire alla sanguinaria dea Kali e non vedono l’ora che il rito si compia. Il mercato delle vittime sacrificali è già fuori Kathmandu. L’incrocio tra la ring road – un attentato all’incolumità di chiunque abbia il coraggio di percorrerla – e la strada per Pharping è affollato di bestie belanti, forse non del tutto ignare del destino che le aspetta. I camion che sputano fumo lungo la strada per il tempio sono una via di mezzo tra zoo su ruote e bus di pellegrini; chi non trova posto nel cassone s’arrampica sul tetto. Al tempio tutto ricorda l’organizzazione e la velocità di una catena di montaggio: si passa tra file di bancarelle dove comprare fiori, frutta e incenso, si viene incanalati in una coda serpeggiante lungo il fianco del torrente che olezza di fogna, si arriva al cospetto dell’altare dove si ha appena il tempo di vedere il macellaio sgozzare la propria bestia e spruzzare di sangue la piccola effige della dea. Felici, con la testa in una mano, si porta la carcassa nello scannatoio. In dieci minuti la bestia perde la sua forma animale e diventa carne da griglia, da mangiare sul posto. L’aria festosa è palpabile, ma la ritualità va cercata nelle pieghe della fretta e dell’organizzazione, come a un megaraduno dei papaboys, come nei luoghi dei miracoli cristiani. Senza l’ossessione per i gadget, però.

Al grande stupa di Boudhanath è tutta un’altra storia. Questo è luogo sacro per i buddisti, il colore che domina non è il rosso del sangue ma il bianco della grande cupola e i fedeli recitano le proprie preghiere sottovoce compiendo il kora serale, il percorso sacro in senso orario attorno allo stupa. Qui i turisti sono a loro agio, decisamente meno turbati che a Dakshinkali si mescolano tra i pellegrini, provano di tanto in tanto a girare qualche ruota di preghiera, scattano foto, sorseggiano un lassi seduti a un caffè. Quando cala il sole poi si ritirano tutti nel quartiere di Thamel dove i ristoranti preparano steak and chips, le botteghe vendono marchi americani taroccati e il culto che si osserva è ancora un altro, quello dell’Occidente.

Kathmandu è una città turistica, è inutile negarlo. Si atterra dopo sette o otto ore di volo aspettandosi chissà che e ci si ritrova in una caffetteria col wi-fi affollata di stranieri e laptop. Per molti questa è una delusione, ma non dovrebbe esserlo. Perché non ci vuole tanto a uscire da Thamel, magari affittare una motocicletta per pochi euro, e andarsi a cercare la propria esperienza di viaggio. Basta fare una manciata di chilometri per non avere più la possibilità di controllare il profilo Facebook e tornare a desiderare invano un espresso. La valle in cui sorge la capitale del Nepal è un museo a cielo aperto che oltre alla città stessa comprende le località di Patan e Bhaktapur, due perle dell’architettura newari, e una quantità di templi fino alle pendici dell’Himalaya. È nel suo insieme che è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

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