Bukara.
Arriviamo circa a mezzanotte, stremati dalla strada peggiore mai incontrata. Ci fermiamo all’Hotel Asia (150$ la tripla). Questi hotel sono una catena presente in tutto l’Uzbekistan, convenzionata con le agenzie di viaggio, decisamente confortevoli, aria condizionata, wi fi, e letti enormi. Appena si ferma la macchina sentiamo urlare “mongol rally, incredibile!” e siamo trionfalmente accolti da un gruppo di italiani in viaggio organizzato. Ci fanno un sacco di feste, perché un ragazzo del gruppo voleva intraprendere la nostra stessa avventura e da qualche giorno ne parlava agl’altri. Ci vedono come un’apparizione. Noi rispondiamo alle mille domande. Loro sono qui dopo qualche ora d’aereo, mentre noi abbiamo un mese e 9000 kilometri alle spalle, 9000 km di sudore addosso, di barba, e di preziosi regali ai nostri occhi e ai nostri sensi. Per quanto mi emozioni sempre vedere il sole sopra le nuvole, prendere l’aereo, è un po come andare in un fast food in città al posto che fare qualche chilometro e mangiare in agriturismo. Preconfezionato. Le feste subito ci fanno percepire il valore dell’impresa, e per la prima volta siamo stati contenti di incontrare degli italiani all’estero. Bukara una città vera a propria, Khiva aveva 50’000 abitanti, Bukara 250’000, la differenza si sente. Ceniamo sulla terrazza di un ristorante, mi sento a Fes in Marocco. Non c’è allegria. Abbiamo un problema con il visto mongolo: diversamente da quanto richiesto, ci hanno concesso di entrare non dopo il 28 agosto, inoltre abbiamo scoperto che la frontiera è chiusa il week end, e il 28 è domenica. Quindi dovremmo essere alla frontiera il 26. Abbiamo troppo poco tempo. Guidare 12 ore al giorno, forse di più, senza tregue, e senza il tempo di vedere davvero i posti che incontriamo. Inoltre, siamo partiti sapendo di non poter lasciare la macchina in Mongolia, perchè di 6 mesi più vecchia rispetto a quanto richiesto. Abbiamo provato a risolvere la questione strada facendo, con mail agli Adenturist, e ad altri esperti, ma non c’è soluzione: dovremmo spedirla in Italia, spendendo 3500 euro circa: 10 volte il valore della macchina. L’idea dominante è quella di tornare a casa… ma in macchina! Per non essere sconfitti del tutto, e per rispettare la nostra idea di viaggio lento, incontro con popoli, e con realtà. Infattibile se si viaggia giorno e notte e dormendo in motel. Tornando a casa, rinunceremmo alla meta iniziale, ma riusciremmo a mantenere vivo lo spirito del viaggio. Ci metteremmo più tempo, più chilometri, ma risparmieremmo quei 3500 euro fuori budget, il viaggio in aereo, e i problemi con i visti. Personalmente vivo male questa decisione, Rumiz ha scritto che “la meta è un atto di fede”, noi stiamo rinunciando alla meta, stiamo abbandonando la fede, la fede nel viaggio. La notte mi rigiro per ore tra le calde lenzuola. Già nella vita, nello studio, ho sempre avuto il problema dell’incostanza, spesso ho cambiato strada al primo fallimento, solo da un paio di anni, sto mettendo a posto le cose, trovando una vera linea guida, una mia estetica, un filo conduttore (grazie alla mia splendida ragazza che mi manca tanto, e alla fortuna di aver trovato dei colleghi di lavoro sognatori e testardi come me). Da tempo mi sento in pace con me stesso, nel percorso professionale/formativo e negli affetti. Questa condizione, seppur ancora precaria, è condizione necessaria per affrontare un’avventura (altra possibilità è la follia di un Bettinelli che parte da solo, per mesi, anni, senza mai sentire mancanza di casa. Lui era un vero traveler, apolide fino in fondo. Infatti è un grande esempio, estremamente coraggioso. Quasi tutti gli altro viaggiatori hanno un posto che chiamano casa, che come la stella polare, ricorda qual’è la via, nella notti più buie). Prima di partire sono riuscito a svuotare l’agenda di questi 2 mesi, a non lasciare cose da fare, a mettere un punto. Questo è il mio primo viaggio-impresa. Poi ci aspetta a casa l’autunno padano, le cene in famiglia, i grappini sul balcone con la fidanzata, i tranquillizzanti viaggi di lavoro, le serie tv con un plaid sulle gambe e la micia sopra, guardando al futuro, e ricominciando a sognare, la prossima estate, la prossima avventura. Ma il fatto che questa impresa sia la prima, non vuole necessariamente dire che ce ne sarà una seconda. Arrivare ad Ulan Bator vuol dire vincere. Si mette un altro punto. E si pensa al futuro. Godendosi in pieno lo stato di stand by nebbioso dell’inverno padano. Muovere verso casa invece ci renderebbe degli Ulisse che fanno del focolare domestico la meta prefissata, viaggiatori non per vocazione, ma per maledizione divina. Io il concetto di luogo natio che ti risucchia a sé, l’ho sempre odiato. Non sopporto di sentirmi ancorato al luogo d’origine, imbrigliato, tarpato nelle mie aspirazioni. Non è quello il punto d’arrivo. Non voglio abbia questo valore. La notte mi consiglia di proseguire da solo. Per me. Per il mio futuro. Per lasciare un precedente forte in cui ho voluto una cosa fino in fondo, e sono andato a prendermela.La mattina Apollo si rimpossessa di me, e mi piego alla democrazia diretta, si arriva a Samarcanda, e poi rotta verso l’Italia. Visitiamo Bukara, ormai senza fretta. Contratto con qualche venditrice, compro un servizio da the in cambio di qualche dollaro e una maglietta. Foto per la città, questi portali turchesi, del dodicesimo secolo, sono tra i monumenti più importati nel loro genere. Capolavori, non solo per importanza storica ma anche per il senso di grandezza e di assoluto che trasmettono, la stessa sensazione provata la prima volta che sono entrato nella Moschea Blu di Istanbul. Con in testa una vecchia canzone di Vecchioni, partiamo per l’ultima meta del nostro peregrinare: Samarcanda.
Federico Maccagni di Highway To Khan verso Samarcanda in Uzbekistan. Destinazione finale: ignota