Ricetta dello sfincione palermitano
500 grammi di farina di grano duro
500 grammi di farina 0
mezzo litro di acqua tiepida
20 grammi lievito di birra
1 cucchiaio di zucchero, ½ di bicchiere d’olio
20 grammi di sale
500 grammi di pomodoro pelato
6 sarde salate
Caciocavallo,
Origano fresco, cipolla
Impastare con i pugni, buona volontà e dedizione farina, lievito e zucchero, aggiungendo poco a poco l’acqua tiepida. Aggiungere pizzichi di sale a piccole dosi e l’olio, continuando a impastare fino ad ottenere una pasta elastica e compatta: riporre l’impasto in una ciotola oliata, tagliare la superficie con una croce e lasciar lievitare per due ore in un luogo caldo. In una ciotola condire i pomodori pelati con pepe, sale e cipolla. Aggiungere olio con generosità, una manciata di foglie di origano e due cucchiaini di zucchero. Dopo aver spolverato la teglia con del pangrattato, stendere la pasta e aggiungervi cinque o sei sarde salate tagliate a pezzi, caciocavallo fresco tagliato a quadretti e ricoprire con importanti cucchiaiate del condimento appena preparato. Spolverata di caciocavallo grattugiato, pangrattato e un filo d’olio per il tocco finale: dopo un’ultima lievitazione di almeno mezz’ora infornare per una ventina di minuta nel forno preriscaldato a 250 gradi.
‘Va tastalu! Scarsu r’ogghiu e chinu i pruvulazzu’, vale a dire ‘Assaggialo! Scarso d’olio e pieno di polvere della strada’: sembra dicessero così, un tempo, i venditori ambulanti che solevano aggirarsi per le strade del centro di Palermo per vendere lo sfincione a signore cariche di borse e sciami di ragazzini. Lo sfincione rappresenta la tipica pizza palermitana e sembra che sia stata inventata in un tempo del quale si è ormai persa memoria dalle monache del monastero di San Vito di Palermo per variare la solita pietanza dal pani schittu, il semplice pane. Se le ricette si perdono nelle tradizioni antichissime, la memoria torna invece in un balzo: basta tuffarsi tra i mercati dominati dai colori e dal vociare della gente, in una Palermo che improvvisamente riacquista la sua anima senza tempo, vive di uomini e chiacchiere davanti a un espresso, mercanteggia e respira i drammi familiari tra le lenzuola candide stese ad asciugare su fili sottili tra i tetti delle case.
Intrisa del gusto arabo, caotica e dirompente, Palermo palpita nei quartieri dominati dal mercato, sussurra storie invisibili, incede al passo di una bella femmina ammirata in un silenzio che trasecola. Se capitate da queste parti non dimenticate di visitare la Cattedrale, convertita in una moschea durante l’invasione dei saraceni e in seguito tornata al culto cristiano, il Palazzo dei Normanni, che accoglie le riunioni dell’amministrazione della Regione Sicilia e la Chiesa della Martorana, dove non riuscirete a resistere al gusto dei dolcissimi frutti di marzapane creati dalle suore del convento.
I mercati di Ballarò e Vucciria, vicino alla Chiesa della Martorana, sono tra i più visitati: per ritrovare i sapori della Sicilia uno stop è d’obbligo anche al coloratissimo mercato del Capo, alle spalle del Teatro Massimo, e Borgo Vecchio, vicino al porto e aperto anche di notte. E chi desideri continuare a inabissarsi nella magia di una Palermo dal fascino misterioso non si faccia sfuggire una visita alle catacombe, in realtà il cimitero dei frati cappuccini di Palermo, dove defunti ancora vestiti di tutto punto spalancano macabre orbite vuote dal 1599 e una Rosalia immota sogna notti eterne sotto le piccole ciglia bionde.
Maddalena De Bernardi
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