Sidi Bou… Settete! Così lo chiamava mio marito per aiutarmi a ricordarne il nome di questo piccolo gioiello tunisino, che si affaccia sul mare dall’alto di una collina scaldata dal sole.
Il blu delle finestre pare uno schizzo di colore caduto dal cielo limpido che sovrasta Sidi Bou Said. Le case, di fresco intonacate, accecano col loro bianco ottico e trasmettono una frescura senza stagione. Un contrasto forte e piacevole, al gusto del Mare Nostrum che riempie la vista dalla cima della collina su cui poggia la cittadina tunisina.
Arrivando a piedi dai sottostanti resti dell’antica Cartagine, per una strada trafficata e in salita, Sidi Bou Said è come un miraggio da raggiungere. Si scorge il bianco dominante, intermezzo dirompente tra il colore della terra, del cielo e del mare.
La fatica per la lunga camminata trova la sua ricompensa già alle porte della cittadina: panetterie che spandono nell’aria profumo di baguette, villette con il giardino curato, la luce come imperativo conservativo di questo piccolo gioiello amato da artisti come Paul Klee.
Solo una ventina di chilometri la separano da Tunisi e un treno la collega con regolarità, eppure pare di stare altrove, sia per l’architettura che per l’atmosfera rilassata. Spagna andalusa o Grecia cicladica, queste le suggestioni evocate dagli stretti vicoli acciottolati.
S’inerpicano con decisione in un silenzio ozioso e si lasciano sorvegliare da verande in legno tinto di blu, protettive per il sole e per le donne del passato, che dalle loro fitte grate potevano scrutare la strada senza esser viste.
Cascate di bouganville sgargianti rompono l’armonia cromatica, mentre le piante di gelsomini attendono la primavera per rilasciare nell’aria la loro fragranza.
I grandi portoni in legno possente usano le borchie quali orpelli decorativi dall’allusione mediorientale e si aprono come scrigni sui cortili dove si svolge la vita quotidiana: archi moreschi degni della Mezquita sono i portici sotto cui le famiglie si radunano per condividere il pasto.
Se già i cartaginesi avevano stanziato un loro insediamento su questa assolata sponda collinare affacciata sul Golfo di Tunisi, fu la decisione di fermarsi da parte di un asceta sufi di ritorno da La Mecca a segnarne il destino.
Dal diminutivo di quell’eremita, il grazioso villaggio prese il suo nome attuale e divenne meta di un pellegrinaggio religioso ancora sentito nonostante vi si goda di una modernità senza tempo, a cavallo tra l’impulso occidentale e il pensiero islamico.
Qualcuno l’ha definita la Saint Tropez dalla Tunisia, forse per le importanti frequentazioni del passato, con Simon de Beauvoir, Paul Klee, Andrè Gide a passeggiare sulla terrazza del Belvedere, attratti dal clima temperato, dagli scorci pittoreschi e dalla luminosità di cui si gode tutto l’anno.
La via principale, costellata di negozi di souvenir tutti uguali, termina in una radiosa piazzetta dove si affacciano due caffè dai dehor accoglienti, dove i turisti e la gente del luogo – intenti nel lungo sorseggiare di un bicchiere di dolce tea alla menta con pinoli – osservano il via vai, sempre diverso e sempre uguale, di un’umanità in transito.
Testo di Barbara Oggero
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