Sono tornata, nei primi giorni di un inverno arido e brullo, al di là delle ultime case dell’abitato, percorrendo le cavedagne aduse alle impronte grifagne dei copertoni dei trattori, più che al piede infrequente dell’agricoltore. Incontro l’edicola, superstite di religiosità ormai dimenticate, fino a giungere in aperta campagna.
Il cielo è alto, di cristallo blu, immensamente sereno e davanti a me si apre la distesa ormai brulla, punteggiata da cascinali, muti retaggi di una tramontata civiltà contadina, e da “giardini informali” di arbusti e alberi più o meno secolari, che ombreggiano scalcinate pietre oppure adornano maceri abbandonati.
Squallida pianura! – penserà forse qualcuno, assuefatto a ben altre attrattive di paesaggio. No, essa ha la sua solennità e il suo fascino: tersa e quasi diafana nelle albe rugiadose che segnano il corso dei ruscelli di un tenue fumigare, violacea e sanguigna nei tramonti che accendono i grandi specchi d’acqua dei maceri e delle “casse”, questa pianura parla allo spirito contemplativo parole sconosciute ai fastosi paesaggi che si possono ammirare altrove.
Cammino velocemente per raggiungere la meta che è un piccolo macero dove mi piace indugiare nelle calure estive all’ombra dei suoi alberi vetusti. C’è un piccolo scolo a lato del macero che, con le piene del vicino canale, gorgoglia e riempie di acqua l’assetato bacino, dove le erbe si sforzano di fissarsi al letto sabbioso e le lunghe e grandi radici scoperte degli alberi fanno da davanzale ad un minuscolo mondo animato e svolazzante. E’ un microcosmo delicato, silenzioso, che si rinnova ad ogni stagione all’ombra delle secolari querce e olmi che lo abbracciano quasi a volerlo proteggere.
Ora soffia un gelido vento, ma pensando che presto arriverà la primavera e con essa le fronde ombreggianti degli alberi del piccolo macero, mi torna in mente
un breve sonetto “Zefiro torna, e di soavi accenti / l’aer fa grato e ‘l pie discioglie a l’onde, / e mormorando tra le verdi fronde, / fa danzar al bel suon su ‘l prato i fiori.” (Ottavio Rinuccini 1562–1621).
Mi piace guardare queste imponenti querce e questi olmi in tutto il loro rigoglio e nell’espansione dei loro rami e ramoscelli, anche se ora spogli.
I piedi scivolano in una melma grigiastra dove l’erba estiva pare scomparsa, grattata dall’ultima aratura, e dopo la curva ecco la meta finale. Il contrasto sorge vivo e spiazzante: un fascio di luce investe una parte del macero. La luce dilaga e si fa sempre più intensa. Il contrasto è netto: da una parte il macero è avvolto da ombre plumbee mentre l’opposto è investito da una luminosità inusuale.
Improvvisamente mi sento come un reduce che torna all’amata casa dopo anni di assenza e trova rovine e sfacelo. Il macero è avvolto da un tormentoso silenzio, mutilato in parte di quanto più caro avesse: i suoi sani alberi secolari. Abbattuti dall’ignoranza umana, del grande patrimonio arboreo di questo territorio restano, piantati nella nuda terra, solo i monconi di quelli che furono quercia e olmo.
Alberi considerati di pregio ambientale, alberi che hanno contribuito alla sopravvivenza delle genti di questa porzione di pianura, alberi idolatrati da popoli di lontane culture.
Quando un’avveduta mano molti decenni orsono piantò nella terra i giovani virgulti fu gioia e saggezza, poi fu ricchezza, oggi è solo barbarie e stupidità dell’uomo. Così se l’autunno ingiallisce l’aprile rinverdirà e “Il gigantesco rovere abbattuto / l’intero inverno giacque nella zolla /… Ma poiché Primavera ogni corolla / dischiuse con le mani di velluto, / dai monchi nodi qua e là rampolla…. (Guido Gozzano “Il Gigantesco rovere abbattuto”)
Testo di Patrizia Berardo
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