PICCOLEITALIE
Daniela Dawan, è nata a Tripoli, dove ha vissuto la sua prima infanzia. Forse per questo potrebbe non essere considerata un’autrice italiana? Certamente no, anche alla luce del suo esordio con il vibrante romanzo “Non dite che col tempo si dimentica” (Marsilio). Naturalmente, non sono invece italiane le Bocche di Bonifacio, che chi va per mare ama al punto da considerarle anche un po’ “nostre”. Lasciamo quindi che la Dawan le racconti per piccoleitalie. La geografia è scienza esatta, ma l’appartenenza ai luoghi è un sentimento assai più complesso, come la Storia insegna e la cronaca recente continuamente ricorda. Ben venga allora un’eccezione in nome della bellezza e vicinanza geografica del luogo, un omaggio alla stregua di una ghost story ottocentesca.
Manuela La Ferla
Fantastiche presenze di un’isola sospesa
I venti costringono il navigante che le attraversa a farsi scudo delle coste della Sardegna: le Bocche di Bonifacio sono un torrente in piena che scorre inarrestabile da Ovest a Est. Affondando nelle acque, il sole che tramonta sembra attutire il fremere perenne del mare. Come non pensare al naufragio tra gli scogli di Lavezzi della Sémillante, la fregata francese diretta in Crimea cui il febbraio del 1855 riservò la furia dell’uragano? Nessuno la vide inabissarsi e non si seppe mai come andò veramente. Anche se è già Francia, gli scogli di Lavezzi sono una prosecuzione naturale dell’arcipelago della Maddalena che gli sta a ridosso. Doppiato Capo Testa si imbocca il canale. Gli scogli somigliano alle costruzioni di sabbia bagnata sgocciolata dalle mani di un bambino: grandi massi di granito bianco, tondeggianti, piatti, levigati. Alcuni ricordano la Sagrada Familia di Gaudì. La natura e l’uomo così inscindibilmente legati, anche nell’ispirazione. Il sole appena calato lascia un chiarore indefinito, per qualche istante il tempo resta come sospeso. Poi le tenebre, un lampo le squarcia. Di nuovo buio. E ancora lampo e buio. La luce del faro, bianca, rossa, verde, si alterna alle pause di eclisse. È dal rapporto tra luce e buio che il marinaio riconosce l’approdo.
La brezza salmastra porta con sé odore di terra, mirto, erbe selvatiche. Lo stesso della Sardegna e della Corsica che da qui non si vede. Di vivo sugli scogli ci sono soltanto asinelli selvatici dalla testa grossa. A Cala della Chiesa o a Cala Lazarina, baie tranquille e riparate dai venti, può capitare in una notte d’autunno, d’essere risvegliati all’improvviso da un brusio indefinito e monotono. E di accorgersi che non c’è nessuno nei pressi della vostra imbarcazione. Eppure le voci si sentono, insistenti. Il mare fa da specchio allo scafo, la barca sembra sospesa in aria. A terra il viottolo di sassi porta al monumento ai naufraghi della Semillante e al cimitero dove riposano quelli che non sono stati inghiottiti dai flutti e la risacca ha scaraventato sulle pietre. Da qui proviene il parlottare sommesso e fitto nel cuore della notte. Lo scalpiccio dei passi si confonde coi repentini fruscii tra le sterpaglie. Man mano che ci si avvicina le voci si fanno più nitide, ma le parole restano incomprensibili. Se mettete a fuoco gli occhi potreste scorgerli: illuminati appena dalla luna livida, appollaiati sulle croci, i cormorani parlano tra loro. Un muretto di calce bianca cinge ogni cosa e cela fantastiche presenze di un’isola esageratamente bella.
Testo di Daniela Dawan
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