A Nocera Terinese quello dei flagellanti è un rito che risale ad un’età pre-cristiana. Protagonista assoluto il sangue che sgorga dalle membra dei vattienti, per chiedere perdono per i propri peccati e quelli dei propri cari. Per espiare e marchiare le strade dove passa la processione dell’Addolorata.
La mattina del Sabato Santo, camminavo per quartieri di case squadrate, costruite ad incastro, addossate l’una all’altra come per affrontare un assedio. Da una fioriera un gatto aprì gli occhi. Grandissimi. Gialli. Da demonio. Quello che ricordo è una pioggia leggera. Le strade lucide, il silenzio che avvolgeva i vicoli. E un’atmosfera cupa , qualcosa di simile alla malinconia, appesa ai fili del bucato. All’improvviso, successe una cosa strana: Monte Repentino alle pendici del quale s’annida Nocera Terinese, in Calabria, arrampicata su un promontorio di roccia tra le valli del Grande e del Rivale, incominciò a sparire dietro un mantello di nebbia. Come accade spesso nel sud, molte porte erano aperte e così, passando, potevo sbirciare. Da una casa uscì il gracchiare di una radio, da un’altra, il borbottio di un pentolone sul fuoco: l’acqua coi rametti di rosmarino bolliva oramai da tempo nell’oscurità di scantinati e garage. Da li a poco, grazie alle proprietà coagulanti del tannino, l’infuso sarebbe servito a tamponare le ferite di chi avrebbe deciso di mortificare le sue carni.
Intanto, il rito della vestizione, intimo e familiare, al quale ero stato ammesso, stava per incominciare. Il silenzioso vattiente, coi pantaloncini neri stretti alla coscia e una maglietta scura, stava immobile accanto alla finestra, assistito da un parente che arrotolava il mannile, l’antico copricapo delle donne maritate sul quale va sistema la corona di spine di sparacogna, l’asparago selvatico della campagna nocerese. In disparte, appoggiati a una botte, sotto a una fila di salumi appesi a stagionare, c’erano due pezzi rotondi di sughero, gli strumenti penitenziali: il cardo, con la superficie di cera d’api rappresa, sulla quale erano infisse 13 acuminate scaglie di vetro lunghe 2 millimetri, e la rosa, liscio e levigato. I tredici pezzi di vetro, le lanze, una al centro, quattro esternamente e le altre otto a formare un cerchio a due centimetri dal bordo, rappresentavano Gesù Cristo e gli Apostoli. Quel silenzio profondo, l’universo d’emozioni del flagellante. Avevo la macchina fotografica ma la usai poco e malvolentieri: il fracasso dell’otturatore sarebbe piovuto come una tempesta in quella piccola, indifesa cantina. Guardai meglio. In disparte, appoggiata a un muro, giaceva la croce di legno fasciata di rosso dell’ecce omo. E’ lui la personificazione di Gesù, il “re dei Giudei” grondante di sangue offerto da Pilato alla folla. Acciomu, nel dialetto locale, è di solito un bimbetto che mostra il torace scoperto, un rametto di spine lunghe e aguzze in testa, la spina santa e porta annodato ai fianchi un drappo rosso fino alle caviglie. Per finire, ha una cordicella nera, in segno di lutto, che come un cordone ombelicale, lo tiene legato al vattiente. E’ proprio all’ecce homo (e dunque a Cristo), in quella cantina, lontano da sguardi indiscreti, che vidi il flagellante offrire per la prima volta il suo sangue.
Affondò le mani nel pentolone, si passò l’infuso sulle gambe, poi, con la rosa, come fa il barbiere per affilare il rasoio, incominciò a strisciarsi ritmicamente cosce e polpacci per favorire l’afflusso di sangue in superficie. Quando i capillari si gonfiarono, assestò un po’ di colpi col cardo e all’istante una copiosa fuoriuscita di sangue sgorgò dalle ferite. Sempre con la rosa, raccolse il sangue e marchiò il torace dell’ecce omo. Subito dopo, di corsa e scalzi, i due uscirono di casa. Il vattiente davanti, con le mani incrociate, come Cristo si presentò a Pilato, e dietro l’ecce omo. Il Sabato Santo dI Nocera Terinese era incominciato. La folla sciamava per le strade, riempiva le piazze. I vecchi e gli ammalati si affacciavano alle finestre coi rosari in mano. Da li a poco, intorno alle 8 del mattino, andò in scena la processione con la statua dell’Addolorata e del Figlio morente, trasportata su un baldacchino, al convento dei Cappuccini che sta in cima al paese, dai confratelli in tunica bianca. La statua dell’Addolorata, è un gruppo scultoreo in legno di pero selvatico, di grande bellezza, una pietà michelangiolesca di Calabria che se ne sta per tutto l’anno nella Chiesa della SS.Annunziata, fino a quando, a Pasqua, esce per le strade e si offre all’abbraccio dei devoti. Racconta la tradizione, che come sempre ha un fondo di verità, che al talentuoso pastore autore dell’opera spari all’istante la vista perché non ne rifacesse un’altra uguale. Quel giorno uggioso, la scultura seicentesca di scuola napoletana rimase a lungo sotto un cellophane trasparente, poi, mano a mano che la pioggia diradava, i confratelli incominciarono a farlo scivolare via.
Prima apparvero i piedi trafitti del Cristo, poi il suo corpo martoriato, alla fine il volto della Addolorata con gli occhi rivolti al cielo, un braccio verso i fedeli e l’altro stretto al petto. I mazzi di fiori subito la ricoprirono. Le mani dei fedeli toccavano i sacri legni. Solo chi stava alla finestra riusciva a sfiorare con le dita il volto dell’Addolorata che procedeva tra ali di folla, a 4 metri da terra, sul baldacchino portato in processione. Intanto i vattienti correvano per il paese, insieme all’ecce omo e all’”amico” con la bottiglia di vino: quel giorno di pioggia faceva un effetto strano vedere il sangue scorrere via, indugiare sui marciapiedi e poi percolare per le vie. Erano più di 70 i vattienti lo scorso anno. Ma la cosa interessante è che nessuno sa mai bene quanti sono quelli che prenderanno parte al rito. Flagellarsi in pubblico è una faccenda personale. La decisione a volte arriva solo il mattino del Sabato Santo dopo notti di conflitti interiori. Il vattiente corre, sale e scende per le ripide strade di Nocera, poi, all’improvviso, si ferma, a volte col volto rigato di lacrime, per battersi davanti alle chiese, alle edicole votive, di fronte alle abitazioni, ai negozi di amici e parenti, persino davanti alla prigione. Il cardo percuote cosce e polpacci. Il sangue esce copioso e la rosa lo raccoglie per “marchiare” gli stipiti delle porte. E resterà li quel patto di sangue, sui muri scrostati, fino a quando la pioggia o lo scorrere del tempo se lo porteranno via. E’ in questo modo che il vattiente espia i propri peccati e ottiene il perdono per sé e le persone a lui care. In realtà solo quando incontra la processione, il rito del vattiente può dirsi concluso. E’ allora che si batte furiosamente versando il sangue davanti all’Addolorata mentre il vino disinfetta e al tempo stesso tiene aperte le ferite per evitare che rimarginino e l’offerta di sangue abbia fine.
Poi il vattiente si inginocchia, si segna e insieme all’ecce omo fa ritorno a casa. Disinfetta le ferite con infuso di rosmarino, si riveste e torna a mescolarsi alla folla. E’ così che ogni anno, spargendo il loro sangue lungo le strade dove passa la statua dell’addolorata, che i flagellanti esaltano la flagellazione di cristo. Quanto alle origini del rito, legato a cruenti culti pre-cristiani per placare divinità assetate di sangue o forse alle mortificazioni corporali dei flagellanti medievali, sono oscure. La testimonianza più antica, risale al 1636. Fa riferimento a un documento apparso nel Sinodo indetto dal vescovo Ambrogio de Cordova. Già i vescovi, i parroci. La cosa certa è che più volte la chiesa ha cercato di convincere i vattienti a rinunciare al loro rito di sangue perchè per salvare il mondo e redimere gli uomini dal peccato è sufficiente quello versato da Cristo, 2000 anni fa. Invano. Una volta, addirittura, era il 1958, quando il paese era sotto la diocesi di Tropea, il vescovo Saba fece addirittura pressioni sul questore. Nocera Terinese sembrava in assetto di guerra. In paese arrivarono la polizia e i carabinieri che con la forza cercarono di bloccare i vattienti. Volevano a tutti i costi fermare quell’atto di devozione, tramandato da secoli, che non voleva in alcun modo emulare Cristo ma solo manifestare uno struggimento dell’anima. Con la forza si sa non si ottiene mai nulla. Quel giorno infatti, nel piccolo borgo in provincia di Catanzaro, presero a bollire nei pentoloni molti più infusi di rosmarino del solito. E i vattienti, anziché diminuire, raddoppiarono.
Testo e foto di Paolo Simoncelli
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