Bologna. Selva Mavezzi, un itinerario che non ti aspetti



Accade sovente, nella valutazione turistica, di concentrare l’attenzione su località che, o per la particolare ricchezza di attrattive o per il concorso di circostanze più o meno fortuite, assurgono al rango di elementi rappresentativi della regione. Altre località che, pur presentando risorse non indifferenti, restano ingiustamente trascurate e richiederebbero, per la loro conoscenza, non itinerari canonici ma una passeggiata ideale attraverso i luoghi ingiustamente dimenticati. Un itinerario per veder quello che abbiamo sotto gli occhi, un itinerario fatto di “Particolari semplici, ma magnifici”.

Non è molto lontano il tempo in cui Selva Malvezzi era tutta compresa nel breve giro del Palazzo del Governatore, dove tutta la vita delle anime si stringeva attorno ad esso, dai momenti più belli a quelli più tristi e dove tutto avveniva e veniva regolato, amministrato, decretato in completa autonomia da una unica famiglia dominante, i Conti Malvezzi. Il quieto volto di un tempo oggi è finito ma ne restano le vestigia importanti, ancora cariche di energia della vita appena trascorsa.

Volgendo le spalle alla serena chiostra dei monti dall’impalpabile visione, la strada corre snodandosi tranquilla tra campi alberati, che brillano al sole per le lucenti ferite del vomero oppure verdeggiano del respiro primaverile dei coltivi, oppure abbagliano con l’oro compatto delle messi o nel giallo arido delle stoppie. Il paese si discopre tra la foschia che a volte lo avvolge anche nei mattini estivi, come un’ombra sfumata che emerge nella lontananza. Questo paese un po’ “fuori mano” è di secolare nobile impronta e costituisce una rivelazione deliziosa per quanti abbiano un po’ di sensibilità e ne comprendano il volto pittoresco, caratteristico, incuneato in un territorio agricolo che conserva ancora la sua nobiltà antica. Un decoro artistico in un paese che non ebbe grandi ricchezze di commerci o domini: la chiave di questo “mistero” si può trovare solo ricordando che l’Italia fu veramente in ogni sua parte la patria della bellezza urbanistica.

Arriviamo dalla via principale, via Selva, percorrendola verso est e, all’inizio dell’abitato, incontriamo a destra il primo gigante mutilato. Il castello detto il “Palazzaccio“, sventrato, che si sfascia e si sgretola poco a poco lasciando cadere giù le sue centenarie membra. Ne sorvolano le sue mura i gufi e ne rabbrividiscono le rondini che corrono a intrecciar ghirlande sulle vette dei pioppi. La mutabile vicenda dei tempi, l’incuria degli uomini che governarono hanno trasformato il volto di questo maestoso gioiello e le pareti di rossi mattoni gettano sull’incolto circostante l’ombra fredda dei secoli. Così le stagioni si rincorrono e, ritornando la primavera, rinverdisce l’erborato cerchio delle mura ferrigne dove l’occhio spazia sulla pianura irrigua, laggiù fino ai colli che si profilano azzurri nel cielo dorato.

Ora il “castello” è affidato alla custodia del tempo: guardia né avveduta, né diligente. Scomparse quasi tutte le vestigia dei passati splendori anche i muri stanno consumandosi nell’abbandono. Nessuno pensa a praticarvi opere di consolidamento e gli avanzi si sgretolano, come ormai indistinti nella memoria degli abitanti locali finiscono i ricordi del luogo. L’incontro porta alla riflessione sulla natura effimera della vita umana, sulla ciclicità degli imperi e la barbarie delle guerre, ma anche sulla possibilità di sopravvivere, attraverso l’arte e la cultura al naufragio del tempo. L’anima nostra, che non sa essere nuova senza sentirsi un po’ sempre antica, riaderisce ai luoghi dove indugia il passato, agli stili, alle costruzioni, agli scorci di quando la vita era più raccolta, più lenta e bisognosa di convivenze più strette.

Tra le valli emiliane, Selva Malvezzi obbedì a tal legge, e lungo una unica via diramantesi poi in due branchie e in poche viuzze laterali, allineò le proprie case l’una all’altra, raccolte come in un nido di rondine. In questa borgata sembra che ogni pietra, ogni ombra, serbino gelosi lontani ricordi; e l’anima è trascinata a ritroso nel tempo a rivestire di trascorse bellezze queste cose, che dal passato hanno il fior di nostalgia e sono cariche di un profumo antico. Qui entriamo nel regno della storia, e apriamo lo spirito a questa piana solenne, dove una nera selva si dispiegava occultando l’abitato dal mondo esterno. Qui sorgeva l’antica Silva Litana temuta dai viandanti e dagli armigeri: ora, al di sopra dei campi arati, spuntano le cime dei pioppi e per l’aria è l’alito afoso della vallata. Oggi non c’è più il folto della selva dove “hai di pensare che non sai se uscirai“.

La strada si incunea nel cuore pulsante di questa tranquilla borgata e, alla sinistra di un ideale lento viandante, si staglia l’imponente complesso feudale del XV sec. chiamato “Il Palazzo del Governatore che fu un tempo centro vitale del paese e sede dell’amministrazione del feudo. Complesso imponente, articolato, composto da una parte centrale con ampio porticato sotto il quale si aprivano, in tempi non lontani, le botteghe di cui oggi, svuotate degli arredi e della componente umana, restano a memoria i portoni originali. I tocchi della campana del grande orologio posto sul palazzo scandivano la vita di Selva, i solenni riposi delle stagioni, le mattine allagate di sole, le vampe di fuoco sui campi. Oggi tutto è intristito come una pianta in cui manchino i succhi vitali, tutto è silenzio, abbandono. Poche le botteghe rimaste, ma c’è chi ha la chiave di stanze che custodiscono alcune briciole di memoria del tempo antico e della grandezza ed importanza di questo luogo.

Nell’ala a sud del Palazzo del Governatore si trovava l’Ospedale che, fondato nel lontano 1699, continuò la sua attività caritatevole fino al 1945. Oggi nell’ unica stanza dove pare il tempo si sia fermato, dove polvere ed incuria regnano sovrane, fanno bella mostra di sé gli scheletri arrugginiti di qualche letto, materassi ammuffiti e rosicchiati dagli unici impertinenti abitanti di questo luogo, piccoli armadietti, una vecchia vasca da bagno in ferro dotata di rotelline, alcune suppellettili: il tutto nel completo disinteresse dell’essere umano. A fianco una piccola cappella ormai privata di ogni valore religioso conserva alcuni inginocchiatoi, un piccolo confessionale e un altare sopra al quale una vuota cornice in gesso testimonia che al suo interno c’era un dipinto. La luce del giorno filtra dalle imposte leggermente aperte, dove fasci di pulviscolo ondeggiano come echi vaganti di lontane orazioni e suppliche ripetute senza sosta.

Il ritorno all’esterno è vivificante, l’aria tiepida si porta via l’angoscia sorta nei locali appena visti e, grazie alla disponibilità del “Pad” , personaggio tipico del luogo e nel suo passato grande atleta di podismo, si passa a visitare il luogo più assurdo, formidabile per quanto contiene, inimmaginabile, dove “collezionare” è stato l’imperativo di tutta una vita.

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