PICCOLEITALIE
Ritratto di un piccolo paese: Campello Monti, che tanto assomiglia proprio a ciò che desidereremmo incontrare, camminando in montagna, dove “l’aria ha l’odore verde del prato”, come qui scrive Maria Paola Colombo. Sentimento delle cose e naturale nitore della frase si sposano in lei a un innato senso del ritmo. Ecco perché gli scritti di questa giovane autrice, recente rivelazione nel nostro panorama editoriale, sono letteratura. Non a caso tra i rari esordienti accolti nella autorevole SIS (la collana Mondadori dedicata ai maggiori autori italiani), con Il negativo dell’amore, la Colombo possiede infatti un dono che non è altrimenti dato, né da scuole, né da impegno, né da altro che dal proprio talento, possiede il dono della scrittura. Con pochi netti e rapidi tocchi, riesce così a farci rivivere scene e immagini cui finiamo con l’appartenere e che finiscono con l’appartenerci, per sempre.
A cura di Manuela La Ferla
Paesino d’incanto, in mezzo alle nuvole
Si sale. Nello specchietto retrovisore i tetti delle palazzine, qualche insegna di negozio e l’argento del lago d’Orta. Una manciata di chilometri, le prime curve a rallentare l’ascesa, e comincia il verde della Valle Strona.. La strada sempre più ripida taglia paesi umili, obliqui, aggrappati al pendio che si fa montagna. Pare di arrampicarsi su per la pianta magica di fagiolo, lasciandosi alle spalle il mondo come lo conosciamo: civilizzato, urbano. Umano. Campello Monti comincia dove la strada finisce, in mezzo alle nuvole. Si parcheggia prima, lungo la costa erbosa. In paese si entra a piedi, d’estate. D’inverno non si arriva, forse solo con le ciaspole e la caparbietà di chi in montagna c’è nato. L’aria ha l’odore verde del prato, e una nota bianca, pulita della neve che resiste sulle punte mille metri più in su. Le case, vive di cucina e uomini solo pochi mesi all’anno, sono poche, con i tetti di pioda e colori chiari come fiori di campo. C’è una strada soltanto che si dirama in vicoli di pochi metri, a morire davanti a una porta di legno, o al lavatoio dove ci si ferma a riempire la borraccia di un’acqua gelata che sa di roccia.
Il paese finisce nel sagrato della Chiesa di Giovanni Battista, che fu parrocchia e ospitò una tela del Guercino fino al 1973. Quell’estate vennero i ladri e se la portarono via. Fu ritrovata in Svizzera più di un ventennio dopo, ma a Campello non è più tornata. La strada si fa sentiero, intercapedine nella vastità dei prati. Ecco l’ultima malga da cui sale l’odore dello stallatico e l’abbaiare dei cani di questi posti, pastori maculati con un occhio marrone e uno blu. Qui si comprano tome, e burro, incartate alla buona da mettere nello zaino con quel bere limpido di fontana. Poi non resta che chiudere la bocca e risparmiare il fiato, mettere un piede avanti all’altro e fermarsi ogni tanto con il respiro grosso per la salita, mozzo per lo stupore della Valle vista dall’alto o di un fiore vicino di un viola impensabile.
Un vecchio con gli scarponi e lo zaino in spalla ci fa un cenno di saluto.
«Quanto manca al lago Capezzone?» domando.
Ci guarda, il nostro gruppo sgangherato e cittadino.
«Io mezz’ora», sorride con la faccia di cuoio, «voi forse di più.»
E riparte con un passo da stambecco.
Lungo il cammino si incontrano ancora un paio di malghe dal tetto spiovente, a mezz’ora l’una dall’altra. Ultimi avamposti di un’epoca di pastori. Poi solo salti d’acqua e la neve che ancora resiste a chiazze tra le rocce. La baita del Cai appare all’improvviso, oltre un dirupo che facciamo a quattro zampe. Rimaniamo zitti, incantati: le montagne fanno spalla a una conca di fiaba, dove si allarga trasparente e immobile il lago alpino. Ora siamo sopra le nuvole, in cima alla pianta del fagiolo magico. Da qui si vede l’intera Valle, il sentiero che ci ha condotto è troppo sottile e lontano. Pare non esistere, pare non esserci una strada per arrivare qui. Solo l’immaginazione.
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