Terremoto in Emilia. Terra senza campanili.

Sulla stessa zona Latitudes ha pubblicato:

In segno di solidarietà con le popolazioni emiliane colpite dal sisma, Latitudes pubblica la testimonianza di una sua collaboratrice, particolarmente legata a quelle terre.

Il terremoto in Emilia –  Maggio 2012


Riprendere la vita, riaprirsi alla speranza dopo una catastrofe naturale, quando la furia degli elementi ha distrutto ogni cosa e ha spezzato vite umane innocenti, ha fatto scempio dei luoghi del comune vivere, non è certo agevole anzi è un’impresa ardua. Un terremoto non lascia solo macerie e morti, ma corrode, lacera le menti e i cuori, provocando ferite che il tempo fatica a rimarginare e che si riaprono a ogni ricordo. All’indomani della catastrofe, oltre al pianto per tante vite umane spezzate così tragicamente, oltre all’angoscia per la ricostruzione già di per sé tremendamente difficile, le popolazioni colpite devono operare un lento e faticoso lavoro di ricostruzione della memoria.




Il terremoto ha distrutto il passato ma ha anche ipotecato il futuro di intere comunità; un passato in cui essi si riconoscevano, in cui la comunione con gli altri era profonda di generazione in generazione. Luoghi e monumenti erano i simboli della memoria, erano i luoghi delle radici, del lungo lavorio di generazioni passate; lo “spessore” della loro storia. Questa fetta di Emilia è una terra piatta, così piatta da non scorgere all’orizzonte neppure una bava azzurrognola di collina, ma ricca di monumenti assai vetusti e chiese in buona parte crollati quando la terra ha urlato e tremato violentemente. Era una terra di campanili che si stagliavano tra fertili campi, e piccoli centri a misura d’uomo.  Ve n’erano in ogni sito abitato, dal piccolo pugno di anime ai grandi paesi, di ogni forma e stile e non erano soltanto come simboli di fede, ma custodi della civiltà di questo popolo.


Paesi della bassa che, in un’epoca turbolenta per le continue scaramucce o guerre dei vari Signorotti e Duchi del momento, sorsero anche come avamposti e vennero dotati di poderosi castelli con torri svettanti per guardarsi dai modenesi o dai bolognesi o dai ferraresi. Interessi politici resero poi preziosi questi paesi e così sorsero palazzi per il potere, imponenti rocche e ville, chiese e cattedrali dai campanili svettanti che richiamavano le anime degli abitanti al suono delle loro campane. Il terremoto ha cancellato tutto questo. Quella sera, gli alberi cupi ondeggiavano contro i muri frantumati o squarciati come bocche spalancate in un urlo di dolore, mentre in lontananza si sentiva il latrato dei cani e più presso il grido lungo della civetta. Sotto i merli dei castelli, dei palazzi, dei tetti nei centri storici, delle chiese, delle torri, dei piccoli oratori, nidificavano rondini e rondoni e già nei nidi si aprivano le prime bocche da sfamare.


Quella notte, in cui tutti dormivano e anch’essi scaldavano il loro nido, tutto è crollato e sono rimasti lì sotto, sepolti dalle annose pietre avvolte da una rossastra e densa  polvere. Terra di gente tenace, amante delle proprie “biolche”; (termine in gergo per i campi agricoli),  resistente alle torride temperature estive, alle fitte nebbie autunnali che bagnano come pioggia, che ama ancora far crescere i figli nella cultura familiare e che non vuole dimenticare l’odore greve delle rocche, delle chiese, degli oratori, delle proprie case, della propria storia. Questo è il loro odore di emiliani, e finché ne resterà un poco addosso, sapranno chi sono e si rimboccheranno le maniche per ricostruire. La terra li ha traditi e sulle loro case non svettano più i campanili, ma si troverà la linfa per rialzare i segni che hanno dato senso all’esistenza degli avi; potranno essere riedificati pietra su pietra, usando gli stessi mattoni  rossi, gli stessi luoghi e la stessa genialità. Prospettiva utopica, dirà qualcuno, ma se non si passa attraverso questo cammino di ricostruzione e si negherà a queste genti i riferimenti ai simboli della loro memoria, della loro tradizione, intere comunità avranno perso anche la loro identità culturale.


Testo di Patrizia Berardo


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