Thailandia. Una vacanza fai da te


Partire per la Thailandia in versione “fai da te” mi era sembrata da tempo una delle decisioni migliori che avessi mai preso. In barba ai pensieri di mia mamma, che come qualunque altra madre era preoccupata della disorganizzata organizzazione, avevo scelto oculatamente il tragitto, le mete ed arrangiato alla bell’e meglio gli spostamenti, sebbene fossi totalmente allo scuro di mezzi e percorribilità delle strade. “Al massimo resto lì una settimana in più” mi ripetevo senza particolare preoccupazione. In realtà la Thailandia non è certo un Paese per avventurosi; trovare da dormire e mangiare non è per nulla difficile, purché si sia disposti a qualche sacrificio.

Non appena uscito dall’aeroporto di Bangkok avevo provato la sensazione appiccicosa della festa. Grigio, verde ed arancione, bagnati dall’umidità gocciolante, facevano da cornice ad una metropoli tentacolare in cui i sensi di marcia sembravano indefiniti e le regole del guidar civile mai scritte. Muoversi per la capitale significava pagare poco un Tuk Tuk, coprirsi la bocca con un fazzoletto, diventato grigio in men che non si dica, e vivere la confusione di una città che ha fatto di se stessa il suo peggior nemico.

Mi ricordo nitidamente la camera albergo; moquette verde scuro in trama scozzese, vetri serrati meccanicamente e aria condizionata gelida; nella hall i tavolini per la colazione esponevano all’aria pesante frutta fresca e sciroppi. Dall’altro lato della mia finestra un banchetto ambulante vendeva mango verde ancora “imbucciato”, con tanto di stecchino per poterlo mangiare a pezzetti. A bordo strada, incastrato tra una bottega ed un centro massaggi, uno dei tantissimi tempietti votivi, avvolto dal fumo denso degli incensi, vezzeggiato da offerte di cibo e frutta. Camminando tra i quartieri e per le strade si percepivano gli sguardi curiosi e gentili della gente; dalle botteghe aperte arrivano schiamazzi e saluti di ogni genere mentre nei templi i muri sembrano in grado di filtrare il mondo intero. Che si creda o no in qualcosa, davanti al Buddha ci si rende facilmente conto di come lo spirito possa cancellare il caos, ovunque esso si trovi, per lasciar spazio al silenzio.

Per raggiungere Sukhothai, la prima capitale del regno thailandese, il mezzo economico migliore mi era sembrato essere il treno. Nella carrozza letto simil sovietica c’erano sbarre di sostegno un po’ dovunque; sul soffitto ventilatori avvitati penzolanti soffiavano frescura. Sceso a Phitsanulok intorno alle 5 del mattino, avevo camminato alla ricerca di un posto dove riposare qualche ora. La hall di un albergo deserto ed i suoi divani lisi fecero buon gioco mentre, due ore e qualche chilometro dopo, mi ero ritrovato puntuale al parcheggio degli autobus.

Preso un Tuk Tuk fino all’entrata del parco ed affittata una bicicletta, trascorsi la giornata tra le rovine dell’antica capitale, ustionato dal sole di metà mattina. Buddha, sgargianti nelle loro vesti arancioni e gialle, abbracciati da radici filiformi e collane di fiori, facevano bella mostra di se osservando lo scorrere del tempo. Nel silenzio di quella giornata ed in quell’oasi di quiete gli unici rumori che ricordo sono quelli delle foglie mosse dal vento, il tonfo dei pesci negli stagni verde scuro e quello dell’erba calpestata dagli zoccoli di mucche erranti.

Arrivato qualche giorno dopo in autobus a Chiang Mai, decisi di visitare il tempio Wat Phratat Doi Suthep famoso per i suoi trecentosei scalini protetti da maestosi serpenti. Spesi i giorni seguenti alla ricerca di una cascata, persa nella foresta tropicale, girando a dorso di elefante e facendo rafting con due pallidissmi danesi. Mae Hong Sorn ed il suo “polmone liquido” qualche giorno dopo fecero il resto per rendere unico un viaggio che aveva superato da giorni ormai la sua metà. Sulla collina il tempio Wat Phra That Doi Kong Mu proteggeva la città, educava monaci bambini e offriva casa ad una colonia di gatti. Qualche chilometro ad ovest le popolazioni Karen continuavano a rendere i colli delle loro donne sempre più lunghi mentre i Hmong ad est dimostravano la loro ospitalità offrendo pannocchie bollite e sorrisi cariati.

Ayutthaya fu l’ultima meta della mia prima vera vacanza. Vidi tutto ciò che mi mancava e riempii gli occhi di quel verde che il grigio di Bangkok avrebbe ben presto ingiallito.

Sawadee Kap Thailandia!

Testo e foto di Alessandro Bosio

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