PICCOLEITALIE
Tempo fa, lessi un libro di Fabrizio Falconi, Dieci luoghi dell’anima, e ne rimasi folgorata. Che un luogo abbia altro da raccontare, oltre le cordinate geografiche e le notizie storiche, è alla base della letteratura di viaggio, ma che solo uno scrittore con il suo sguardo potesse svelarne l’anima è un’idea che da allora non mi abbandonò più. Così quando con Lucio Rossi di Latitudes cominciammo a ragionare su Piccole Italie, l’idea si aprì alle nuove possibilità offerte dalla Rete. Ora, con questo magnifico pezzo su Leonessa, «gioiello mediovale» del nostro Appennino, il cerchio si chiude. Poeta, romanziere, blogger, giornalista, Falconi è molte cose insieme, ma è soprattutto una persona ricca di vera umanità. Ed è proprio grazie a questo «sentire» che le sue parole sanno regalarci la bellezza della realtà e la realtà, anche quella più segreta, riesce sempre a fluire in autentica narratività.
A cura di Manuela La Ferla
La linea d’ombra di Leonessa
Per raggiungere Leonessa, gioiello medievale incastonato in un vasto altopiano tra i contrafforti dei monti dell’Appennino, tra Umbria, Lazio e Abruzzo, bisogna seguire tortuosi saliscendi di una strada di montagna, attraversando i fitti boschi della valle santa percorsa a piedi da San Francesco ottocento anni fa, fino al pianoro fertile contro cui si staglia il campanile di San Pietro, avamposto del paese fondato da Carlo I d’Angiò nel 1278. Ci sono posti che puoi riconoscere soltanto dall’odore, quello di questi luoghi è di neve e freddo e di coltri di lana polverose d’inverno; di fieno e more e d’aria carica di letame nei sentieri tra i campi, d’estate.
La luce è sempre diagonale, sbuca dal cono dei monti, illumina il ripiano delle case, s’infrange al tramonto dietro la linea d’ombra, prima che la sera porti il soffio brillante delle stelle. Qui hanno vissuto, inanellando i cerchi compiuti della vita e della morte, molte delle generazioni che hanno preceduto – e permesso – la mia nascita, ferocemente attaccate alla generosità e alla scontrosità della terra: da questa dipendevano le sorti, a questa si tornava sempre, per quanto lontano si potesse andare. Ogni volta si sale il declivio del Corso che taglia in due l’abitato di vecchie case cinquecentesche; ogni volta si sale il sentiero verso la Torre dalla quale sembra di poter comprendere tutto quel che necessita all’occhio; ogni volta si torna a parlare con il folle fraticello – San Giuseppe da Leonessa – che in tempi furibondi osò indossare non solo la povertà assoluta ma anche le vesti di ambasciatore presso il Sultano Murad III a Costantinopoli, il quale lo ripagò col supplizio del gancio; ogni volta si torna a perdere piacevolmente le ore sulla Piazza – davanti al Bar degli Archi – intitolata ai martiri del 7 aprile del 1944.
Per un puro caso, mio padre sfuggì alla retata delle truppe naziste che avevano occupato il paese. L’ordine era quello di portar via i maschi. E mio padre, che dormiva nella sua stanza in penombra, di spalle, aveva i capelli raccolti dalla retina che allora si usava per tenere in ordine i capelli dopo averli lavati. I soldati entrarono, videro quella che sembrava una ragazza addormentata, e se ne andarono. Fu una fortuna, certo. E se ne parlò a lungo nei caffè del paese, nelle pause del lavoro nei campi, quando il grano matura, dopo che la paura fu passata. Quel che di bello c’è, tra le pietre e le resistenti nevi di quei luoghi è anche la capacità di conservare le storie, tenerle a mente, tramandarle. Così nelle sere d’estate, quando io ero bambino, mia nonna amava spiegare quello scherzo del caso come un aiuto, una ferma protezione giunta dall’alto o forse solo dall’anima del villaggio che non aveva voluto abbandonare uno dei suoi figli più giovani. Chissà dove è finita quella retina, chissà dove è custodita la voce di mio padre, che a volte mi pare di ascoltare ancora, nel silenzio e nella calura d’agosto dei vicoli.
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