160 anni dopo la corsa all’oro deglii avventurieri negli States, parte un’altra corsa. L’oro questa volta è liquido e azzurro. E chi se lo contende sono Siria, Iraq e Turchia, che con il progetto di 22 dighe, minaccia le risorse vitali dei Paesi vicini
“Questa è una questione di sovranità. Questa è la nostra terra. Noi abbiamo il diritto di fare tutto quello che vogliamo. ” Così si espresse il 25 luglio 1992 il Primo Ministro turco Suleyman Demirel, rivolgendosi ai paesi confinanti di Siria ed Iraq, nella cerimonia d’inaugurazione della diga Ataturk, il più grande impianto idraulico finora mai realizzato in Turchia. Il monito è sempre vivo, lo sfruttamento delle risorse idriche dei fiumi Tigri ed Eufrate rappresenta un tema di importanza strategica per la Turchia e costitutisce un motivo di serio attrito nelle relazioni diplomatiche con i suoi vicini. Dopo anni di interruzione, infatti, si è rimessa in moto la macchina per realizzare la diga di Ilisu, il più controverso degli sbarramenti previsti dal mastodontico progetto GAP. La sigla sta per Guneydoglu Anadolu Projesi, grande progetto anatolico concepito dal “padre della patria turca” Mustafa Kemal Ataturk e poi sostenuto concretamente dalla seconda metà degli anni Settanta da tutti i governi. Tale progetto prevede la realizzazione di otto dighe e otto centrali idroelettriche lungo il bacino del Tigri e di 14 dighe e 11 centrali elettriche lungo quello dell’Eufrate.
Questo complesso piano idraulico, considerato ad alto potenziale conflittuale da parte della Banca Mondiale che rifiutò di finanziarlo, è da sempre avversato e ritenuto controverso sia a livello interno, da parte dell’etnia curda, sia a livello esterno da parte di Siria e Iraq. Contando su più di 230 miliardi di metri cubici di riserve d’acqua dolce rinnovabili annualmente e sul controllo delle sorgenti dei due più grandi fiumi del Medioriente, la Turchia manovra una leva potente in grado di condizionare i suoi vicini e utilizza le dighe del GAP come rubinetti che chiudono e aprono il dialogo con il Paese confinante. Quando nel 1990 la Turchia interruppe il corso dei due fiumi transfrontalieri riducendo i flussi idrici di Siria e Iraq del 40 e 80 per cento per riempire il bacino della diga Atataurk, tale strategia fu la dimostrazione “di cosa sarebbe potuto succedere se avessero continuato (i siriani) a sostenere i guerriglieri curdi del PKK”. In quell’occasione, il GAP venne effettivamente usato come strumento di minaccia e di ritorsione. Gli accordi di Adana del 1998, che siglarono la rinuncia della Siria ad appoggiare il PKK, sono il risultato di una precisa politica turca.
“Né Siria nè Iraq – disse sempre Suleyman Demirel nel luglio del 1992 – possono mettere parola sui fiumi turchi così come la Turchia non mette parola sul loro petrolio. Abbiamo diritto a comportarci come meglio crediamo con le nostre risorse. Noi non chiediamo di dividere il petrolio e loro non devono chiederci di dividere la nostra acqua”.
Le dighe del GAP fanno parte di una manovra diretta ad attestare la Turchia a livello di grande potenza regionale, grazie alla sua posizione geografica, cerniera e ponte di due continenti, e al possesso delle sorgenti dei due fiumi mesopotamici. L’oro blu è dunque sempre più uno strumento politico, di qui il termine oggi in auge di “idropolitica”, dove l’acqua costituisce un potente mezzo per condurre ad una guerra non dichiarata, o fare la pace.
Nel caso turco, sebbene alla riprova dei fatti non si sia ancora concretizzata la possibilità di una “guerra dell’acqua”, i segnali per avviare una seria e risolutoria cooperazione regionale non sembrano incoraggianti. Fra i tre stati rivieraschi vige un accordo che impegna Ankara a rilasciare dall’Eufrate non meno di 500 metri cubici di acqua al secondo, di cui il 48% va alla Siria e il 52% all’Iraq, ma la Turchia si rifiuta ancora di sottoscrivere la Convenzione delle Nazioni Unite del 1997 per la divisione equa e ragionevole dei corsi transfrontalieri (Non-Navigational Uses of Transboundary Watercourse), e rivendica una completa sovranità sui due fiumi. Il che, non fa altro che acuire i contrasti tra le parti.
Al momento, comunque, le critiche maggiori verso lo sviluppo del progetto GAP provengono da parte della popolazione di etnia curda dell’Anatolia sud-orientale. Sebbene il progetto abbia tra i suoi obbiettivi fondamentali quello di creare 3,8 milioni di nuovi posti lavoro, aumentare del 206% il reddito pro-capite, irrigare 1,7 milioni di ettari di terreno e di essere in grado di produrre 27 miliardi di kilowatt all’anno, il GAP viene ancora concepito, nell’immaginario colletivo curdo, come un potente fattore di sottomissione e di intrusione nel processo per l’affermazione di un’effettiva autonomia regionale.
La vera “guerra dell’acqua” si gioca infatti sul piano ambientale e sociale, sulle devastanti conseguenze delle dighe del GAP sul territorio dell’antica Mesopotamia e sulla popolazione interna. La costruzione degli impianti, come era già avvenuto con quello di Birecik nel 2000, porta alla sommersione di intere aree, al dislocamento di migliaia di persone (spesso senza un piano di riallocamento), all’alterazione degli ecosistemi fluviali e alla perdita di millenari patrimoni archeologici come, ad esempio, l’antica città di Zugma di epoca romana.
La sola diga di Ilisu lungo il corso del Tigri, che dovrebbe essere terminata entro la fine del 2013, porterà a sommergere 199 villaggi e a costringere circa 78 mila persone di etnia curda a dislocarsi altrove, la maggior parte verso aree ancora sconosciute e senza una concreta prospettiva di risarcimento per la perdita delle case. Indagini condotte da alcune ONG locali affermano che più dell’80% della popolazione interessata dalla realizzazione della diga di Ilisu è contraria al progetto. Su tutti, gli abitanti dell’antica città di Hasankeyf, che rispetta nove criteri su dieci dell’UNESCO per essere riconosciuta come patrimonio dell’umanità, hanno annunciato che non lasceranno le loro case e si batteranno per la sua salvaguardia della piccola città.
Ma il governo turco è stato molto chiaro. Il 5 agosto 2006, in occasione dell’inaugurazione dell’inizio dei lavori della diga di Ilisu, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato con decisione: “Qui ci sarà un mare. Abbiamo perso troppo tempo, non possiamo più aspettare”.
Nel frattempo, l’augurio è di scongiurare ciò che sosteneva Mark Twain: “Il whisky è per bere, l’acqua per combattersi”.
Testo e foto di Tommaso Protti
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