Laos: viaggio nel Paese con il volto da bambino


Il Laos ha il volto di un bambino capace di avvolgere il tempo in un ampio abbraccio, di accoglierlo con la naturalezza di chi se ne appropria trasformandolo in esperienza vissuta. Qui i cuccioli d’uomo si toccano, si abbracciano, si punzecchiano. Entrano in relazione con i coetanei e con gli anziani plasmando creativamente la realtà che li circonda con un’inventiva che il mondo occidentale ha ormai dimenticato. Non scimmiottano il mondo degli adulti, non giocano al computer e non mangiano merendine confezionate; non sono iscritti a corsi di inglese o di arti marziali, ma imparano a vivere nella concretezza della realtà che li circonda. Giocano con la terra e con le galline che scorazzano sotto le modeste palafitte di bambù in cui abitano, maneggiano abilmente coltelli e attrezzi agricoli fin dalla tenera età, si prendono cura l’uno dell’altro ricoprendo allo stesso tempo il ruolo di genitori, fratelli e compagni d’infanzia. I piccoli corrono nudi e coperti di polvere; i loro occhi sono profondi e vispi, attenti e reattivi; gli sguardi sprigionano autentica gioia e serenità, così come i volti corrugati delle persone più mature, spesso impegnate in lavori manuali.

Tra le risaie si seguono i ritmi della natura, scanditi da cerimonie e riti d’iniziazione, dalla pacata delicatezza del buddhismo che qui ingloba in modo armonioso induismo e credenze animiste. Un coacervo di minoranze etniche e linguistiche, un innato senso della socialità e dell’ospitalità per cui a chiunque si apre la porta di casa, soprattutto nelle occasioni di festa. In questi momenti la famiglia si allarga, la Beer Lao scorre a fiumi e le diverse portate si gustano accovacciati intorno allo stesso tavolo. Lo sciamano del villaggio offre sigarette e superalcolici, le donne si affaccendano tra pentole nere di fuliggine e stoviglie spaiate e gli uomini ridono e scherzano aiutati dagli effetti dell’alcol. I villaggi del nord del paese sono permeati da una dignitosa povertà, altra rispetto alla miseria delle grandi metropoli. Le case occhieggiano nella sconfinata distesa di foresta primaria, tra banani e alberi della gomma. I contadini conoscono alla perfezione gli infiniti segreti che nasconde questa grande dispensa a cielo aperto: i frutti commestibili e quelli velenosi, le erbe medicinali e i rimedi contro infezioni e malattie. La cultura agricola, però, rischia di essere schiacciata dalla tecnologia cinese, dalla pressione della vicina Thailandia e dalla secolare influenza vietnamita, da un sistema non più basato sui principi comunisti che a lungo hanno regolato l’economia interna ma dagli incalzanti meccanismi della globalizzazione.

Il Laos sta cercando una propria strada in un mondo dove finanza e speculazione guidano le sorti delle singole nazioni. Il paese è stretto dalla morsa delle potenze confinanti e continua a essere dilaniato dai lasciti delle guerre d’Indocina, dei bombardamenti americani e delle mine antiuomo che inquinano i terreni e impediscono la pianificazione di seri progetti edilizi. Impossibile costruire scuole e ospedali, strade e grandi vie di comunicazione senza correre il rischio di rimanere vittima di esplosioni responsabili di tremende tragedie familiari. Per questo motivo il Mekong continua a essere una delle principali arterie commerciali del paese, percorso quotidianamente da colorate chiatte di legno che trasportano merci e turisti stranieri. I visitatori si dirigono perlopiù a Luang Prabang, l’antica capitale oggi nominata Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco per gli innumerevoli wat e stupa disseminati nel centro storico. La famosa processione dei monaci è senza dubbio una delle principali attrattive della cittadina, ormai costellata di guesthouse e centri massaggi di un settore terziario in continua crescita, purtroppo incapace di preservare l’autenticità del luogo. Ma è sufficiente uscire dal nucleo centrale del centro abitato per passeggiare tra le piccole botteghe artigianali dove si producono pregevoli tessuti lavorati a mano, quaderni in carta di riso e oggetti di cesteria, o per entrare indisturbati in un monastero periferico dove le giornate dei bonzi sono intervallate dalle regolari attività religiose. Qui si trascrivono preghiere e si modellano con pazienza e abilità le statue del Buddha, si lavano i panni al pozzo e si medita, proprio come nei centri spirituali di Vientiane, nuova sede del governo dopo la colonizzazione francese.

La città più grande del paese, con circa 200.000 abitanti, sorge su una pianura coltivata a riso, presso un’ansa dell’ampio corso d’acqua; è caratterizzata da spaziosi boulevard e palazzi delle istituzioni, traffico e movimento incessante: motorini e tuk tuk, ingorghi ai semafori e inquinamento, carretti carichi di polli e verdura, piccoli chioschi ai margini delle strade. Modernità e tradizione, costumi tipici ed eleganti tailleur, cartelli di legno che indicano piccoli esercizi commerciali e insegne luminose che pubblicizzano noti marchi internazionali, terra e asfalto. Chissà se il cosiddetto progresso porterà effettivamente a migliori condizioni di vita, chissà se cancellerà le testimonianze di usi millenari o sarà invece capace di integrarli nella società contemporanea. L’unica cosa certa è il cambiamento in corso. L’antica armoniasecondo cui le vette delle pagode dovevano essere più alte delle palme e quelle più alte delle case, è rotta dalle nuove sagome di brutte costruzioni che svettano al di sopra di tutto” affermava Terzani a proposito della Cambogia. Anche in Laos il passato sarà spazzato via senza alcuna remora con l’incalzare della modernità?

Testo e foto di Elena Arneodo

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