Asia by bus, dal Timor Est all'Indonesia

Continua il viaggio di Angelo Zinna in Timor Est, attraverso questo paese povero e sconosciuto al turismo di massa. Angelo ci racconta quanto è difficile spostarsi con i mezzi pubblici, ma è il prezzo da pagare per conoscere uno spaccato di vita in sud est asiatico.


Trovarsi a viaggiare in Timor non è certo una cosa che capita ogni giorno, ma capire come funziona il sistema dei trasporti su questa isola in cui il turismo rasenta lo zero per muoversi liberamente spendendo il minimo, è senza dubbio un esercizio che implica una buona dose di capacità interpretative. L’isola del Timor è divisa al centro da una linea immaginaria che separa il neonato stato del Timor Est, nella metà orientale, dal Timor Ovest, nella regione del Nusa Tenggara appartenente all’Indonesia. Raggiungere il Timor è possibile volando da Darwin oppure da Bali, ma è possibile anche accedere via mare traghettando su Kupang, nella parte indonesiana.

In Timor Est, dove neanche l’asfalto sulle strade è da darsi per scontato, girare può essere sorprendentemente facile quando ci si adatta a un sistema organizzato in modo, diciamo, fantasioso. Gli autobus da Dili partono “in mattinata”, raggiungono la destinazione “in qualche ora” e cominciano a muoversi da una fermata non ben definita. Per trovarli, basta chiedere. I principali villaggi (qualcuno li chiama città), come Baucau, Lospalos, o Maubisse sono ben connessi e i bus colorati partono ogni giorno appena sono pieni. Riempirli, di solito, significa girare a vuoto intorno al punto di partenza fino a quando l’autista non ha convinto abbastanza persone a salire, che in un bus di capienza trenta persone possono arrivare a cinquanta, contando chi prende il sole sul tetto, ma senza contare le numerose galline, che da queste parti viaggiano gratis.

Per le tratte di tre o quattro ore, ad esempio da Dili a Baucau oppure Maubisse e viceversa, il biglietto costa quattro dollari, anche se è da sapere che persino nella più sviluppata costa nord, un viaggio di quattro ore significa coprire soltanto poco più di 100 km, date le condizioni della strada, le capre, le mucche, e le soste nei villaggi a scaricare patate o visitare gli amici dell’autista. Nonostante la pazienza necessaria a mettersi in strada, muoversi con i mezzi pubblici è veramente il sistema migliore per confondersi con i locali e avere la possibilità di vedere dall’interno uno spaccato di vita timorese. Non ci sarà un viaggio in cui qualcuno non approfitterà di scambiare due parole con il benvenuto visitatore. Anche quando questo non ha idea di cosa gli venga detto.

Uscire dai principali centri può diventare un po’ più complicato, soprattutto oggi che il braccio armato delle Nazioni Unite ha lasciato il paese, e ha di conseguenza fatto scomparire una grossa fetta di mercato per i pochi operatori del turismo, che negli anni passati puntavano esclusivamente sugli stranieri spediti in Timor dai rispettivi governi. Oggi che il potere è tornato in mano alle autorità locali e i turisti che arrivano sono ancora pochi, località come Com o Tutuala e poi la piccola isola di Jaco nella punta orientale non sono più così facili da raggiungere. In passato i microlet, i piccoli minibus utilizzati per il trasporto interno nei villaggi percorrevano queste tratte almeno una volta al giorno, ma essendo questo diventato più raro e non sempre prevedibile, oggi il metodo migliore è dirottarne uno. Per una quindicina di dollari, infatti, gli autisti saranno pronti ad abbandonare tutti i loro clienti sul bordo della strada, per trasportarvi a una settantina di chilometri di distanza.

Scoprendo che milioni di dollari sono entrati nelle casse dello Stato negli ultimi dieci anni, grazie ad aiuti umanitari e l’appoggio di altre nazioni, viene da chiedersi come sia possibile che le strade siano ancora in queste condizioni. Belino, quando lo incontro a Lospalos, me lo spiega: “Siamo un paese giovane, povero e asiatico. La corruzione qui è normale. Arriva 10 al governo, ma ai vari distretti passa solo 5. Ai villaggi poi arriva 3, e, se va bene, il popolo vede 1.”

La maggior parte dei villaggi hanno almeno una guesthouse, a volte senza nome o insegna, ma è importante non affidarsi troppo a Lonely Planet, in quanto la guida non è stata aggiornata dall’abbandono dell’UN che ha portato alla chiusura di diverse sistemazioni e ristoranti. Anche in questo caso, chiedere è la risorsa migliore. Una camera semplice, con un letto e mandi (una vasca d’acqua utilizzata sia per lavarsi che per tirare lo sciacquone) condiviso, costa in media quindici dollari a notte. Caro per chi arriva dal sud-est asiatico, ma è da capire che il turismo domestico in Timor Est non esiste, e tutte le strutture sono di conseguenza messe in piedi per l’uomo bianco, per i malay, come li chiamano qui.

Superare il confine lascia perplessi. Nel giro di pochi metri le condizioni delle strade migliorano drasticamente, e così per la segnaletica. Arrivando in Indonesia, si notano subito le linee bianche che separano le corsie, inesistenti in Timor Est, e un asfalto se non fresco, per lo meno privo di buche. Il viaggio da Dili a Kupang impiega circa dodici ore in bus e percorre strade alte che precipitano in un oceano di cui è difficile contare le tonalità di blu e turchese. Le curve si attorcigliano intorno a colline illuminate dal verde delle palme, e dal finestrino si salutano una lunga serie di villaggi dove la sussistenza è, da sempre, l’unica economia conosciuta. I bambini salutano, gridano, rincorrono la polvere. In Indonesia, di certo non un Paese che nuota nella ricchezza, ci si sorprende per il miglioramento delle infrastrutture, ma non sono soltanto le strade a cambiare forma. Le persone qui, hanno da tempo perso l’ingenuità che caratterizza l’altra metà dei timoresi. Il visitatore è di nuovo il turista, il portafogli con le gambe, e come questo è trattato. La curiosità nei confronti dei nuovi arrivati non esiste, e così l’interesse di mostrare la faccia migliore della propria cultura, per orgoglio della propria patria.

Kupang è connessa con molte isole nel resto dell’Indonesia, ed è per i pochi passanti poco più che un luogo di scalo. A giusta ragione, viene da dire, in quanto le uniche attrattive di questa energetica città paiono essere il suo commercio, i suoi chiassosi mercati del pesce e poco altro. Ah, dimenticavo, c’è la carne di cane, il piatto tipico. Arrivando a Kupang non è possibile sapere quanto si sarà costretti a fermarsi e anche questo lo si scopre soltanto una volta arrivati. Le navi partono in media un paio di volte a settimana per destinazione, ma la cancellazione, anche ripetuta, è normale durante la stagione dei monsoni. C’è quindi chi si ferma un paio di giorni, ma anche chi è costretto ad aspettare settimane intere, a volte di più. Io sono stato fortunato, Flores, per me, è a sole tredici ore di distanza.

Testo e foto di Angelo Zinna – Exploremore

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