PICCOLEITALIE
Dicono non si nasca geni e che il talento sia un’arte cui dedicarsi tutta la vita, tesi incontrovertibile e che apre speranze a chiunque non goda dalla nascita di un mileu artistico – intellettuale. Del resto sono molti i figli d’arte, non me ne vogliano, che tradiscono loro malgrado l’indiretto mandato familiare. Però eccezioni ce ne sono sempre state e Maria Pace Ottieri è una di queste. Figlia del grande Ottiero Ottieri, “uno scoglio a parte nella letteratura del secondo Novecento, non solo della nostra” (cit. Zanzotto), e della sua “sposa infinita” Silvana Mauri, nipote a sua volta di Valentino Bompiani per la cui casa editrice aveva a lungo lavorato; Maria Pace è riuscita con la sola forza delle sue parole, a essere ciò che è: una scrittrice a tutto tondo. Un’autrice che può permettersi di spaziare da una saggistica a tratti antropologica, nata da coinvolgenti indagini sul territorio: Ricchi tra i poveri, tredici storie di grande fortune, a testi indimenticabili di narrativa pura, tra cui mi piace ricordare qui soprattutto Amore Nero (Premio Viareggio Opera Prima), e Abbandonami (Premio Grinzane Cavour per la Narrativa Italiana), edito da Nottetempo. Alla piccola ma vitalissima casa editrice romana, che negli anni è diventata il suo editore di riferimento, si deve anche la pubblicazione di Quando sei nato non puoi più nasconderti, da cui è stato tratto l’omonimo film di Marco Tullio Giordana. Mentre da un altro suo indimenticabile testo: Chiusi dentro, trae origine il brano che la Ottieri ha scelto di regalare a Latitudes, una finestra su una delle tante Piccole Italie che con questa rubrica speriamo di non far dimenticare.
Chiusi. Una Toscana appartata, ruvida, riottosa e un po’ bastarda.
Il corso precipita a valle come un torrente grigio ansioso di gettarsi nel mare, sbatte e rimbalza su un frammento di paesaggio intatto, un’immagine ferma e bellissima: lunghe quinte di colline a perdita d’occhio, le macchie scure dei boschi, quelle verde tenero delle viti e color ocra del grano, un sottile velo azzurro pallido chiude l’orizzonte. Da un’altura Chiusi guarda la Val di Chiana, una lunga regione di origine alluvionale che si stende da qui fino ad Arezzo, affogata dall’alto medioevo nella mal’aria delle paludi, l’etrusca Clevsin, soprannominata dagli stessi Etruschi Camars, tra due paludi.
Durante la bonifica, voluta dal Granduca Leopoldo nei primi anni del Settecento, Chiusi divenne lo spartiacque tra una Chiana tributaria del Tevere e una tributaria dell’Arno, un “double bind” che solo molto più tardi la psicoanalisi doveva bollare come una minaccia per la saldezza dell’identità. L’ultimo paese della provincia di Siena, al confine con l’Umbria e a pochi passi dal Lazio, una Toscana appartata, ruvida, riottosa e un po’ bastarda, Chiusi è sempre stato un paese cagionevole, più volte sul punto di estinguersi nel corso della sua storia e ripopolato da esuli, perseguitati, debitori cacciati dalle loro terre di origine.
William Brockedon, un viaggiatore inglese della metà dell’Ottocento, lo definì la città dei sepolcri. Tombe, cunicoli, catacombe, cisterne, le sue bellezze, sono tutte sotto terra, «interiori» si direbbe se si trattasse di una donna poco avvenente, le uniche catacombe paleocristiane della Toscana sono qui. Perfino il mausoleo di Porsenna, il grande re etrusco che fece di Chiusi una delle città importanti dell’Etruria, mai ritrovato, ma vagheggiato per secoli, doveva nascondersi nelle sue viscere. Da quei fasti, lontani duemilacinquecento anni, il paese non si è più ripreso. A Porsenna che aveva saputo innalzare la città a importantissima lucumonia, ha dedicato il corso principale, quello che scorre in discesa e sul quale si affaccia il corpo della casa avita, un palazzo dalle severe pareti di mattoni, con la torre duecentesca di pietra grigia, che si fregia di rossi merli posticci, aggiunti nel Novecento, da un ingegnere ambizioso e poco filologico; il mio bisnonno. L’edificio piega in un vicolo largo e ancora in uno più stretto, intorno a un cortile rettangolare circondato da tenaci rampicanti. Qui, un piccolo cancello nero, nascosto dall’edera intrecciata ai lunghi tentacoli della rosa banxia, dà accesso a una porta e a una rampa di scale a cui ci si aggrappa per salire come a una fune invisibile intrecciata di odore di mosto che sale dai fondi, cera, fumo freddo, legna.
È uno dei tanti paesi dell’interno del centro Italia che si sta lentamente spegnendo, quella zona grigia sufficientemente lontana dalla costa per essere condannata alla propria sterile bellezza, garantita nel nostro paese solo dall’abbandono. La malinconia di questi posti non è una malattia casuale o un semplice accidente, ma un tratto che corrode il paese fino a costituirne la stessa forma, qualcosa da cui l’intera comunità è contenuta e dominata.
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