Pietre preziose a Finale Ligure di Paolo Paci

PICCOLEITALIE

Maestro di viaggi

I grandi Editor americani suggeriscono ai propri autori sempre la stessa cosa: «Guarda, indica, mostra», ma a Paolo Paci, Maestro di viaggi, di storie, di lifestyle e di cultura gastronomica, avrebbero ben poco da consigliare. Alpinista, direttore di testate giornalistiche, scrittore, ha contribuito in prima persona alla nascita e diffusione di riviste storiche di turismo e io stessa, nel mio piccolo, ho iniziato a collaborare a magazine del settore grazie alla sua fiducia, quindi in qualche modo anche «Piccole Italie» è frutto dell’inconsapevolezza bonaria di allora e per questo ancora lo ringrazio. Autore di reportage, libri di viaggio e itinerari, tra cui ricordiamo soprattutto: Il deserto dei non credenti; Evitare le buche piu dure: vent’anni di viaggi al contrario; e Alpi, una grammatica d’alta quota, Paci, con rapidi e incisivi scorci ci consegna qui un ritratto intimo e pulsante di Finale Ligure e della valle dello Sciusa che magicamente lo incornicia. Dopo aver letto di rocce chiare, campanili protoromantici e gotici, sentieri da percorrere in bici sull’altopiano, il lettore non potrà che innamorarsi del suo cuore pulsante: Finalborgo, non a caso eletto tra i borghi più belli d’Italia i cui colori – al tramonto – regalano un «rosso commovente, identico all’enrosadira delle Dolomiti ladine», vera e non celata passione dell’autore.

Manuela La Ferla

Pietre preziose a Finale Ligure

A volte cerco d’immaginarmela, la valle dello Sciusa, com’era appena cinquant’anni fa. Il fondo alluvionale inondato di peschi, in primavera un tappeto di petali rosa, qua e là interrotto dalle strisce nere di terra smossa degli orti, dove ingigantiscono le zucchine trombetta, e dalle macchie verde scuro degli agrumeti, quasi tutti chinotti, che i contadini coltivavano per l’industria profumiera. I lati della valle, che si sollevano subito ripidi verso le creste orlate di rocce chiare, erano intagliati nelle linee parallele delle fasce, sorrette da muri a secco, occupate in massima parte da uliveti di taggiasca. Quando spirava brezza dal mare, le folate piegavano all’unisono le piccole foglie coriacee scoprendone la faccia argentea, e interi versanti del monte mutavano di tonalità. Inframmezzati agli ulivi, ecco i vigneti di lumassina, coltivati per spremerne un vino acido e pungente da consumo familiare.

Dalla terrazza di casa mia, una casa di contadini naufragata sugli scogli di Calvisio, borgata del Finale, chiudo gli occhi e vedo tutto questo. E quando li riapro riscopro, ai miei piedi, il quartierino di case popolari e i parcheggi d’asfalto che hanno occupato la valle degli orti, mentre ai fianchi la boscaglia ha riconquistato le fasce, scacciando i contadini. Ora vi regnano i cinghiali. Solo le rocce chiare sulle creste sono rimaste identiche: sono lassù, esposte alla chimica della pioggia, da almeno venti milioni di anni, dal Miocene. Imprigionano valve e coralli fossili. Al tramonto si tingono di un rosso commovente, identico all’enrosadira delle Dolomiti ladine. Il Finalese, grazie alla sua pietra, conosce una nuova giovinezza e un rilancio economico. Migliaia di climber vengono da tutta Europa per accarezzarla; a questi sono seguiti ancora più numerosi i biker, che percorrono su due ruote i sentieri dell’altopiano. È un turismo fresco, giovane, destagionalizzato. Fa vivere tutti così che nessuno rimpiange i tempi d’oro della Piaggio, che sul mare costruiva motori d’aereo, e tanto meno rimpiange il duro lavoro delle fasce.

È per la pietra di Finale che sono arrivato qui, giovane arrampicatore, molti decenni fa, ma non in tempo per vedere la valle degli orti. Una roccia compatta e magnificamente lavorata in buchi, fessure, clessidre, pietra solida e facile da tagliare in blocchi regolari. I Romani ci costruivano le strade, la Iulia Augusta che corre verso nord e di cui rimangono cinque ponti persi nei boschi della Val Ponci: una passeggiata fresca che spesso ripercorro in primavera. I marchesi Del Carretto la utilizzavano per i loro castelli, alti e fieri dalle torri bugnate, che poi i Genovesi avrebbero raso al suolo. Gli ordini religiosi vi innalzavano campanili, quello protoromantico di San Cipriano a Lacremà, quello gotico dell’abbazia benedettina di Santa Maria a Finalpia, e i campanili sulle mura e nel centro di Finalborgo. E i contadini di ogni epoca ci tiravano su case e terrapieni, spesso riutilizzando i blocchi già squadrati d’epoca romana o medievale. Anche la mia casa è fatta di tali blocchi riutilizzati, incastonati di conchiglie. Li conservo come pietre preziose.

Testo di Paolo Paci © RIPRODUZIONE RISERVATA

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