PICCOLEITALIE
Trieste, o cara.
Apparentemente distratta e sonnolenta, Trieste sembra aver acquisito il vizio di guardare continuamente indietro, di guardarsi troppo. E come Zeno, personaggio del capolavoro di Svevo, non riuscirà più a camminare una volta preso atto “della macchina mostruosa, composta da 54 muscoli” che gli si muove dentro – quasi non fosse possibile vivere e guardarsi vivere – Trieste rischia di rimanere nascosta dietro un mito contraddetto dalla realtà. Sarà anche per questo che la più letteraria delle nostre città, in una recente classifica della Lonely Planet si è vista citare al primo posto tra i luoghi più belli d’Italia, e allo stesso tempo più ignorati dai turisti internazionali. Eppure, per scegliere di visitarla, basterebbe il desiderio di passeggiare sul molo Audace, con il mare tutto intorno o la possibilità di entrare in uno dei suoi giustamente molto celebrati e meravigliosi Caffè che ancora oggi spingono il viaggiatore a fermarsi a un tavolino e fantasticare, sollecitati da una città dove, per citare Slataper: “Ogni cosa è duplice … cominciando dalla flora e finendo con l’etnicità”. Ed è sempre qui che l’arte della memoria rischia di frantumarsi in aneddoto, con quel gusto tutto particolare di raccontarsi che hanno i triestini. I tempi in cui un giovane Roberto Bazlen, riuniva autori e amici nel salotto di Elsa Oblath per leggergli brani scelti di Kubin, Musil, Kafka, Walser, Valéry, Strindberg, Zweig, scrittori al tempo sconosciuti e che grazie a lui sarebbero entrati decenni dopo nella nostra cultura, appaiono un ricordo sotteso e continuamente rimosso. La città che già nel 1909 il drammaturgo austriaco Herman Bahr aveva descritto con toni metafisici: “Non è una città. Si ha l’impressione di non essere in nessun posto. Ho provato la sensazione di esser sospeso nell’irrealtà”, rivela così a chi ha la pazienza di attraversarla a piedi, una bellezza austera e inquieta, assolutamente segreta, che non a caso attira gli scrittori che in lei ritrovano forse alcune delle proprie contemporanee identità. Tra loro, la giovane e bravissima Giada Ceri, ha saputo cogliere nel brano regalato a Latitudes un volto della città in cui a tratti rispecchiarsi. Due romanzi all’attivo con titoli esplicativi di un punto di vista mai banale sulla realtà che la circonda: L’uno. O l’altro e Il fascino delle cause perse (diventato poi pièce teatrale a Lugano), e altri lavori in corso d’opera, alla scrittura aggiunge da tempo un impegno costante e resistente a progetti che riguardano il carcere, ambito cui si dedica con una dedizione sociale che le fa onore.
Una questione di punti di vista
Forse Trieste è il ragazzaccio aspro e vorace che fu caro a Saba, o forse una signora un po’ âgée dai modi spicci e incurante degli anni. Non è certo un posto per principesse: nel Castello di Miramare ospitò Carlotta nei giorni in cui la sua mente si perse per sempre, e non riuscì ad allentare l’angoscia di Sissi, insofferente ai protocolli. Il suo equilibrio, invece, Trieste dà l’impressione di non perderlo mai, in bilico fra un passato, un presente, un futuro che camminano con lei di pari passo, nelle molte genti e culture che da sempre l’attraversano.
Presa tra due confini in un angolo che è insieme il più settentrionale del Mediterraneo e il più meridionale della Mitteleuropa, è stata tra le altre mille cose anche il primo focolaio della psicoanalisi che, con Edoardo Weiss, proprio da Trieste si diffuse in Italia, ed è sempre qui che Basaglia venne a iniziare la sua rivoluzione nei manicomi. Ma Trieste è anche la città di flâneurs che nella folla cercano la solitudine e si muovono dietro ai loro pensieri, senza meta, magari per trovarla. «Gioia del viandante» significa il suo nome nella lingua fenicia da cui secondo alcuni deriva. Chissà. Certo è che in questa città si può passeggiare davvero leggeri, magari con il sostegno di un un “capo in b”, cappuccino servito in bicchiere di vetro robusto e abbondante di schiuma – da bere al Tergesteo in Piazza della Borsa, dove le storie locali sono narrate sui vetri colorati, o al Caffè degli Specchi, nella Piazza dell’Unità d’Italia, una delle più grandi d’Europa – o, ancora, al Caffè Tommaseo, da cui nel 1848 «si diffuse la fiamma degli entusiasmi per la libertà italiana». E che fu uno dei primi, anche, a servire il gelato.
Può capitare, passeggiando sulla Piazza Hortis, di imbattersi in Italo Svevo, un libro in una mano e il cappello nell’altra, o di incrociare in Via San Nicolò Umberto Saba di fronte alla sua Libreria antiquaria, l’antro funesto che prima fuggì e poi acquistò in capo a pochi giorni. E sul Canal Grande ecco Joyce che attraversa il Ponte Rosso, scolpito lui pure nel bronzo da Nino Spagnoli. Ma non è solo un luogo dell’anima questa città di monti, di mare e di vento, che ha chiese per ogni rito e un tempio israelitico fra i maggiori in Europa. Bella addormentata, come la chiamano, libera dissacrante immobile sul ciglio dell’acqua del Golfo, davanti alla Piazza Unità d’Italia che a sera si accende di luci blu, mentre il vento la spazza.
A Trieste l’Est comincia e l’Ovest finisce, o viceversa – alla fine è solo una questione di punti di vista – il cielo pare più vicino alla terra, o la terra al cielo, di qua o di là dalla frontiera, dai monti o sul mare. E non lontano c’è Palmanova, città-fortezza che pare sbalzata dal Deserto dei Tartari di Buzzati ed è costruita sul numero tre. Tre sono le porte d’accesso, sei le strade convergenti nella piazza esagonale del centro, nove i baluardi di questa stella sulla terra. Una macchina bellica geometrica, perfetta, disabitata, nata il 7 ottobre 1593 e passata sotto il dominio napoleonico senza – per fortuna o per contrappasso – conoscere assedi. Perché Trieste è una città dove la libertà è un sentimento diffuso e prepotente, quasi come la bora che l’attraversa e avvolge.
Testo di Giada Cieri © RIPRODUZIONE RISERVATA