Tokio delizioso film giallo



Le metamorfosi di una città in perenne divenire scorre nelle foto del nostro inviato. Che ricorda le immagini di grandi film di un passato solo recente.


“ Tokyo non esiste”. Finiva così, con questa provocazione tra l’ironico e il paradossale, “Tokyo Ga

(Tokyo è ),  film / documentario dell’ 83 di un Wim Wenders palesemente affascinato dalla  città in cui lavorava a tutt’altro film. Mi chiesi che senso avesse quell’ultima battuta così sibillina, criptica, nichilista.

La questione mi tornò in mente venti anni dopo guardando “Lost in translation“, bel film scritto e diretto da Sofia Coppola. Anche lei, come Wenders, rimane incantata e, a sua volta, riesce a incantare il pubblico con ripetute riprese di suggestive atmosfere metropolitane e inquadrature di scorci così spettacolari, da impressionare il protagonista (Bill Murray nella parte  un attore in città per un lavoretto da testimonial).

Perfino lui, ghostbuster emerito di New York City, strabuzza gli occhi di fronte al caos di luci, colori e gente, tanta gente, e reagisce con qualche impaccio di fronte alle tante situazioni bizzarre, surreali, comiche in cui si imbatte chi mette piede in città per la prima volta. E anche in questo film, il più grande conglomerato della storia dell’umanità (35 milioni di abitanti) concentrato in un gigantesco, intricatissimo e perfettamente funzionante meccanismo metropolitano, va ben oltre il ruolo di sfondo “esotico” con le sue suggestioni di megalopoli tecnologica, frenetica, l’orizzonte frastagliato da centinaia di parallelepipedi grandi e grandissimi, che grattano il cielo e proiettano l’ombra su deliziose oasi di verde e preziosi scrigni di sublime armonia giapponese.

Col susseguirsi delle citazioni, la Grande Tokyo e tokyoiti, riti e miti inclusi, si impongono progressivamente fino ad assumere il rango di soggetto parallelo, di co-protagonista implicito, che catalizza  una improbabile quanto effimera storia d’amore, tra il maturo attore e una giovane e bella moglie trascurata (Scarlett Johansson). Ambedue “prigionieri” tra le pareti di vetro e acciaio di un hotel di lusso, racchiuso in un grattacielo di una Tokyo per molti versi familiare e ospitale, intrigante e piacevole, perfino divertente, ma anche bizzarra e misteriosa, surreale e aliena e dove, citando il trailer, “tutti si perdono e ognuno vuol farsi trovare”.


E anche in questo caso, un film d’autore occidentale girato a Tokyo, diventa un film all’interno di un altro film su Tokyo, la location dove accade di tutto, perfino l’amore. E così, dieci anni dopo, di ritorno da una Tokyo avanti almeno un secolo dai tempi della pellicola ormai ingiallita di Wenders e una ventina da quella di Coppola jr, guardo e riguardo le immagini scattate per  Latitudes e  mi accorgo che i luoghi ripresi in Tokyo ga, sono assolutamente irriconoscibili, quasi svaniti, mentre è evidente che quelli di “Lost in translation” sono stati oggetto di un restyling completo e a regola d’arte. E così, solo ora, trent’anni e un milione di foto dopo, riesco finalmente ad afferrare il senso di quell’assurdo finale di “Tokyo ga”.

Ma certo. Herr Wenders, da buon visionario, aveva intuito che quella città, attraversata da una perenne metamorfosi urbanistica, sarebbe stata riplasmata completamente a una velocità per noi umani d’occidente inimmaginabile. Sapeva anche che quelle sue immagini sarebbero presto diventate  un souvenir per cinefili. L’Amarcord raffinato di un passato cronologicamente recente, ma, di fatto, remoto, di una città né antica, né vecchia, ma obsoleta come un computer di prima generazione, o un vecchio cellulare, al tempo dello scibile umano a portata di polpastrelli, sul touch screen di uno smartphone.

Storicamente, come l’Araba fenice, Tokyo è sempre risorta dalle sue ceneri ogni volta ancora più grande, moderna, affollata. E quell’immenso cantiere non si è mai fermato e continua la sua opera come laboratorio di futurismo urbano, civile, perfino antropologico, che rinnova la città mantenendola all’avanguardia e all’altezza del suo ruolo di leader globale dell’area Asia-Pacifico, così come è scritto nell’editto imperiale, che conferì alla vecchia Edo, il nuovo nome, titolo e destino di capitale d’oriente.

La Tokyo “1.1“ di Wenders, così ingenuamente strabiliante e vagamente postmoderna di quel lontano 1983, semplicemente non c’è più. Appunto, “Tokyo non esiste”. Oggi, e non per molto, “Tokyo ga” è tutta un’altra città. Ancora più grande, avanzata, affollata, civile e intrigante. Eccola.


Testo e foto di Ennio Maffei   © RIPRODUZIONE RISERVATA

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