Ci sono capitato per caso, durante un giro d’Italia bislacco per raccogliere storie. Non sapevo nemmeno che ne esistessero ancora, e poi ho scoperto che buona parte di quelli che restano è proprio lì, a oscillare fra le funi e le canne, nella piccola Camargue italiana. Parlo dei ponti barche o se preferite di chiatte, per usare l’esotismo dei cartelli locali. Qui a Goro, provincia di Ferrara, l’Emilia incontra il Veneto in quel bozzo poroso che si protende nell’Adriatico. Non è terra e non è acqua e le regole vengono mescolate. La strada scende sotto l’argine del fiume e l’acqua scorre sulla vostra testa. Più che fiume, tanti fiumi, e con nomi piuttosto curiosi: c’è il Po di Levante e c’è quello di Venezia. Persino il Po di Gnocca. Sono tutti figlioli del Po, che dopo 650 km si scioglie tra isolotti, sacche d’acqua e dune di sabbia, in un ecosistema meticcio unico in Italia che è un tripudio di vita e suggestione in ogni stagione dell’anno. E tra Gorino Ferrarese e Gorino Veneto, in tutto quattro case attorno alla chiesa, il ponte di barche e il suo custode.
Ciò che colpisce di più è il rumore, il rumore placido che fa il ponte, un po’ fatto di travi che sforzano, un po’ d’acqua verde che sbatte e tiranti che lo assicurano alle sponde. A metà del ponte, l’edicola di una Madonna coperta di fiocchi rosa e il gabbiotto del custode. È un vecchio pescatore. Mi spiega che fare il custode del ponte è un fatica terribile. Io gli do ragione per non aprire discussioni. Lontana, ad esempio, arriva una barca. Mi dice il ponte va aperto. Perché? Se no la barca non passa, risponde lui e schizza in un angolo e si mette ai comandi di un apparecchio pieno di tubi che sa di meccanica andata. Si accende un motore diesel e dal canneto vicino volano via gli uccelli. Il ponte si apre in due, la barca passa. Il ponte si richiude. Passano pochi minuti. Lontana, un’altra barca. Il custode lascia di nuovo il suo gabbiotto e corre, tenendosi il cappello, a mettere in moto di nuovo gli ingranaggi che aprono il ponte. In effetti è un lavoro un po’ ansiogeno. Io ci uscirei pazzo. Gli chiedo quante volte va aperto e chiuso e lui mi risponde tante. Tante quante? Tante tante. Ora è tutto più chiaro. E aggiunge: pensi che io ho anche avuto un infarto, guardi. Mi pare di vedere una cicatrice sul suo petto, sotto la canottiera bianca.
Vorrei anche conoscere i vongolari perché mi incuriosisce il loro mestiere. Il custode del ponte mi manda oltre, al bar. Là ci sono di sicuro dei ragazzoni che fanno quel mestiere. Questi luoghi campano di quello. Miticoltura e pesca. Il territorio ne porta i segni: palafitte sui canali, costruzioni semisommerse, tristi reti al sole – per dirla alla Neruda – e gli allevamenti di cozze e vongole nelle sacche, caratteristici golfi marini poco profondi. È possibile costeggiare molte di queste sacche grazie a belle strade panoramiche, ammirando alcune fra le oltre 300 specie di uccelli che passano o nidificano qui. In passato l’aria che tirava per i pescatori di vongole è ben riassunta da un detto: “È povero chi la pesca, chi la vende e chi la mangia”. In effetti la vongola era anche detta poveraccia, a indicare un mestiere infame e poco remunerato. Da allora le cose sono un po’ cambiate, e nel bar di cui sopra trovo alcuni ragazzi impegnati nel settore, attualmente molto più proficuo che un tempo. Uno di questi è un allegro laureato in filosofia, innamorato di questi luoghi soprattutto in inverno, quando la nebbia e le brinate li rendono fiabeschi. Nonostante la laurea, fa il vongolaro. La pesca consiste, volendo semplificare, nel rastrellare la superficie del fondale con un opportuno attrezzo. Tutto automatico? Quasi, e ride. Mi invita ad andare con lui, sulla barca, il giorno dopo. Io vorrei parlare anche di filosofia, se si può. Mi conferma che si può senz’altro. Sul mare la filosofia non è mai stata vietata e alla foci di un fiume è di casa.
Testo e foto di Devis Bellucci
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