Zanzibar, l'isola delle spezie e dei colori

Eccola affiorare dalle acque turchesi dell’Oceano Indiano, al largo delle coste tanzaniane. È Unguja, l’isola più grande dell’arcipelago di Zanzibar. La raggiungiamo dopo il lungo viaggio aereo una mattina di luglio, pronti ad assaporare, tra spiagge di un bianco accecante e paesini imbastiti di paglia e fango, i profumi pungenti dell’Africa, che sanno di spezie, polvere rossa e calda ospitalità.

Soggiorniamo in un resort sulla punta settentrionale dell’isola, ai margini del villaggio di pescatori di Nungwi, che scopriremo animato dai sorrisi di dolcissimi bambini e dai colori brillanti dei lunghi abiti e veli delle donne, animo musulmano di Zanzibar. Nungwi è un piccolo mondo fuori dal (nostro) mondo, in cui facciamo esperienza della vera quotidianità isolana, fatta di comunione e condivisione – sfrontata, oserei dire – con la natura. Lo vediamo dai tanti animali che vivono con e fra gli uomini, dai piedini scalzi dei bimbi che giocano accucciati fra rottami, dalle casupole senza vetri alle finestre, dal rosso della terra che si riflette in quello delle lamiere arrugginite dei tetti.

Ma è anche una quotidianità fatta di pause e chiacchiere, che accompagnano l’allungarsi delle ombre. È un tempo lungo, da non misurare mai per non spezzare l’incanto. Non c’è alcuna fretta, nessun problema… hakuna matata! Oltre la cinta di palme che custodisce i vicoli di Nungwi, si apre a noi la spiaggia, una distesa bianca a perdita d’occhio, con decine di imbarcazioni tipiche – dhow – arenate per via della bassa marea, pescatori al lavoro fra le sacche di acqua e cumuli di alghe verdi a riva fra mucche magre e gibbose. Uno spettacolo tutto africano.

Le imbarcazioni tipiche

Ricche di fascino sono anche le frenetiche passeggiate a Stone Town, capoluogo zanzibarino. È un’esperienza unica perdersi fra le voci e i colori del suo mercato giornaliero, con frutta, verdura e spezie esposte a terra e su carri di legno, tra mani, piedi e occhi che ci cercano. Per non parlare degli odori fortissimi nel mercato coperto della carne e del pesce.

Ci addentriamo nel centro storico, ragnatela di malandati carugi liguri, ritagliati fra edifici ottocenteschi costruiti rigorosamente in pietra – da cui il nome “Città di pietra” – dipinti di un bianco scrostato. Seppure Stone Town, nata nella prima metà dell’Ottocento, sia molto giovane rispetto alle nostre città, si mostra a noi come una città vissuta, dall’animo antico e sapiente, probabilmente per via dell’intreccio di influenze architettoniche arabe, indiane e coloniali e per l’aspetto decadente delle costruzioni.

Balconi in legno scuro a veranda, portoni massicci finemente decorati e bazar affollati si inseguono nel labirinto di viuzze. Ed è in fondo ad una di esse che vediamo stagliarsi sulla striscia di cielo pallido del tardo pomeriggio il campanile di una chiesa anglicana accanto al minareto di una moschea. Vicini e pacifici, nel pieno spirito tanzaniano.

Dalle prigioni per gli schiavi – triste zavorra del passato – passiamo al forte arabo, fino a sbucare nei pressi dell’edificio anonimo in cui visse, bambino, Freddy Mercury. Ci guardiamo intorno con un po’ di emozione e poi dritti fino al porto della città, sulle cui acque si specchia la celebre Casa delle meraviglie, primo edificio dell’Africa orientale ad essere dotato di ascensore e primo di Zanzibar a disporre di corrente elettrica.

Qui restiamo rapiti dal sole, che affonda rapido nel mare rossiccio, dietro ai dhow che riposano quieti in porto. Calato il sole, ecco animarsi come d’incanto la banchina: il ramadan concede tregua ai palati affamati, che affollano velocemente le bancarelle improvvisate a cuocere pesce fresco alla griglia e altre prelibatezze dall’inebriante aroma di spezie, vere regine di Zanzibar.

Il posto migliore per perdersi nei loro intensi profumi? Una delle piantagioni dell’isola. E così, a poca distanza da Stone Town, ci addentriamo in una lussureggiante vegetazione per conoscere da vicino noce moscata, zenzero, chiodi di garofano, cannella, pepe, curcuma, peperoncino, cardamomo, vaniglia, citronella e caffè e gustare ananas, banana, cocco, frutto della passione, carambola e altri frutti mai visti prima. Un’estasi per il palato!

Ma il momento gastronomico più intenso a Zanzibar lo viviamo alcuni giorni dopo a Sand Bank, lingua di sabbia bianca al largo di Stone Town. Si tratta di un piccolo lembo di sabbia incontaminato e selvaggio, di un candore abbagliante, che il movimento delle maree fa emergere dall’oceano soltanto alcune ore della giornata.

I Masai

È su questo isolotto che, tra bagni di sole ed escursioni tra i fondali corallini, gustiamo un memorabile pranzo di aragoste, cicale di mare, gamberi, calamari, polpo e tonno, cucinati alla griglia, all’ombra di un gazebo improvvisato. A poca distanza da Sand Bank, ormeggiamo sull’isola Changuu, più nota come Prison Island per aver ospitato una prigione, in realtà mai utilizzata, di cui oggi non resta che qualche finestra a grata sul mare turchese e un hotel di lusso all’ombra di un gigantesco tamarindo.

L’isola è riserva di tartarughe terrestri giganti. Sono le testuggini originarie delle Seychelles, pesanti, coriacee e impacciate, alcune delle quali ben più che ultracentenarie, alle quali diamo spinaci da mangiare all’ombra di una fitta vegetazione. Il tramonto si avvicina rapido e per noi giunge il momento di rientrare, via Stone Town, a Nungwi. Qui trascorriamo gli ultimi giorni di relax, abbandonandoci ai ritmi lenti dell’isola, alle maree che innalzano e ritirano ciclicamente il mare, fra bagni in acque da sogno, camminate verso Kendwa, tramonti di fuoco sul mare, cene tipiche in spiaggia. Ma i veri protagonisti delle nostre giornate a Nungwi sono i Masai posti a guardia dei resort zanzibarini.

Pelle color ebano, eleganza innata, vesti rosse, armi in legno alla vita (non di rado accompagnate da un cellulare), i Masai provengono dalla Tanzania continentale, dove abitano le terre fresche degli altipiani vicini al Kilimangiaro, vivendo di pastorizia. Sono alcuni di loro a parlarcene nella baia bianca di Nungwi. Ascoltiamo incantati i loro racconti di vissuto quotidiano e confrontiamo i nostri universi paralleli di storie e aneddoti. Al momento di dirsi addio giungono spontanei gli abbracci e le parole di sincero affetto, frutto dei tanti momenti di condivisione che ci hanno reciprocamente arricchito. Il ritorno al ritmo convulso della nostra quotidianità, se rende impraticabile lo stile di vita hakuna matata, non ci farà certo dimenticare i sorrisi e il calore degli zanzibarini, né lo spirito di amicizia vero di cui Masai ci hanno fatto dono. Asante sana Tanzania.

Testo di Francesca Vinai | Foto web RIPRODUZIONE RISERVATA © LATITUDESLIFE.COM

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