The Yukon Blues

di Igor d’India

I racconti avventurosi di un grande alpinista popolano l’immaginario di un ragazzino che sogna di cavalcarne le orme. Igor d’India ripercorre il tragitto di Walter Bonatti tra Canada e Alaska in un viaggio onirico ed entusiasmante.

Quando avevo circa dodici anni, tornai a casa da scuola e trovai mio padre alle prese con un libro che lo aveva completamente distratto dai fornelli. Era così assorto che bruciò il pranzo e io andai su tutte le furie, chiedendo che ci fosse di così interessante tra quelle pagine da scordarsi la minestra sul fuoco.

“Senti ‘sta storia. C’è questo alpinista… Bonatti, sta scalando una montagna, si schiaccia inavvertitamente un dito con una martellata, mentre pianta un chiodo in parete, e poi riprende a scalare. Da non credere. Ti piacerebbero i suoi racconti”. Mi liquidò così e mangiammo la minestra bruciata.

Io non credo nel destino e neanche in Dio, ma nella mia ingenuità di bambino sentii che prima o poi quelle storie le avrei lette.

Presi per la prima volta in mano In Terre Lontane” di Walter Bonatti a quattordici anni ed ebbi la sensazione che, di quelle sue fantastiche avventure nel mondo selvaggio, una l’avrei potuta rivivere a modo mio: la spedizione in canoa in solitaria sul fiume Yukon, in Canada e Alaska.

Lo step successivo, il momento “quasi quasi ci provo”, prese forma quando Reinhold Messner, in visita a Rossana Podestà a Dubino, mi disse “Allora se vai, buona fortuna in Alaska!”. Era l’autunno del 2012, Bonatti era scomparso da un anno e io non lo avevo mai conosciuto di persona. Al suo funerale avevo invece conosciuto Rossana, sua compagna di vita, con la quale, dopo una breve corrispondenza, avevo instaurato un rapporto quasi da “nonna che non sapevo di avere”. Ecco perché il nostro incontro a Dubino.

Ma, dopo i tanti sogni e incoraggiamenti, sarei stato capace di organizzare, realizzare, filmare, raccontare, una spedizione in solitaria di più di duemila chilometri, con un mezzo che non conoscevo e in un ecosistema a me ignoto? E i soldi? E l’equipaggiamento?

La risposta a tutti questi interrogativi sarebbe stata soltanto una: l’azione.

Partii per il Canada nell’ inverno 2012 e vi rimasi, tirando a campare come lavapiatti in un sobborgo di Toronto, fino all’aprile del 2013. Non ero ancora mai andato nello Yukon e non avevo trovato neanche i soldi per un sopralluogo. Ma non potevo rinunciare e lo raggiunsi in autostop. Settemila chilometri in meno di una settimana (la fortuna del principiante) in un Canada immenso e stupendo, ancora gelato. Poi l’incontro magico con il fiume, il commovente momento dell’ icebreakup che ne libera le acque dal ghiaccio, la vita di espedienti a Dawson City, le intense amicizie con i ragazzi del posto e un’unica certezza: tornerò in Italia, troverò i soldi, farò la mia spedizione.

Nei mesi in Italia, ho fatto il bagnino, il lavapiatti, ma mai il videomaker (che è in realtà il mio lavoro). Mi stimolava molto di più la gavetta in campi diversi. Mi divorava una forte malinconia, un richiamo di forza impressionante, una sorta di Blues che veniva dallo Yukon. Era questo il fuoco che mi dava la forza, negli innumerevoli momenti in cui la stanchezza e lo scoramento mi rendevano difficile anche guardarmi allo specchio.

A febbraio non avevo ancora nessun contratto concreto, ma ero sicuro che la svolta era imminente. Nel giro di tre mesi ero infatti in Canada, con una produzione alle spalle (Kobalt Entertainment di Milano), ero stato nominato testimonial di Sport Senza Frontiere (Onlus che si impegna a portare lo sport ai bambini in difficoltò fisiche, economiche, sociali) e viaggiavo in autostop verso il mio sogno. Fortuna? Destino?

Qualunque cosa fosse, sapevo di esserne artefice e responsabile, nel bene e nel male. Me l’ero cercata e toccava finalmente a me, mi sembrava di correre, inarrestabile, e al tempo stesso sapevo che l’eccesso di entusiasmo non avrebbe dovuto distrarmi.

Di lì a poco arrivai allo Yukon. Concentrazione. Cosa non so fare? Cosa mi serve? Via dunque ai preparativi: scelta e test di attrezzatura, brevi escursioni di prova e allenamento in canoa, interminabili discussioni a base di birra con “bushmen” esperti del wilderness.

Il piano era di remare sullo Yukon fino in Alaska e, dopo circa millequattrocento chilometri, raggiungere Fort Yukon, sopra il Circolo Polare Artico. Là sarei sbarcato per trasportare la canoa a Old Crow (Canada) presumibilmente via “Bush plane” (piccoli aerei usati per collegare località remote altrimenti irraggiungibili via terra o acqua). Da Old Crow sarei poi tornato a Fort Yukon sul fiume Porcupine in canoa e avrei continuato fino a Tanana, come Bonatti.

La partenza da Whitehorse, a fine giugno 2014, con una canoa di seconda mano ribattezzata “Rossana”, è stata un momento di tensione ed euforia che ricorderò per sempre. Il fiume era calmo, accogliente, tranquillo, oserei dire “facile”. Il tramonto mozzafiato, le zanzare già impertinenti e voraci.

Ma il primo momento difficile, dominato da ansia e paure, non ha tardato ad arrivare: poco dopo, infatti, sono rimasto bloccato sul lago Laberge per circa due giorni in balia del vento. Alla prima finestra di bel tempo mi sono rimesso a pagaiare e ho proseguito verso Carmacks (340 km) cercando di trovare l’armonia con il fiume e le forti correnti, evitando i pericoli e scoprendo le prime difficoltà legate al maltempo (rami affioranti, animali, corrente, vento di traverso, pioggia). Ho poi affrontato, come Bonatti, le rapide Five Fingers, con “appena” quattrocento chilometri di pratica alla spalle, ma con un sempre più marcato istinto di sopravvivenza, che mi ha aiutato a venirne fuori. Mille chilometri più a Nord, negli Yukon Flats, una vasta zona dell’ Alaska, ho avuto i problemi maggiori, dovuti al vento che ha soffiato fino agli ottanta chilometri all’ora, in un punto in cui il letto misura circa otto chilometri e le onde possono raggiungere il metro di altezza.

Dopo cinque giorni di ansia e fatica, in “cordata” con due canoisti canadesi ai quali mi sono unito per ragioni di prudenza, sono giunto a Fort Yukon, dove i nativi mi hanno avvertito dell’arrivo di una perturbazione straordinaria che avrebbe reso il fiume un inferno. Con gran tristezza ho dovuto interrompere il viaggio in canoa e trovare un passaggio su un motoscafo per andare a filmare “il gathering” (riunione) della tribù dei Gwitch’in, nel villaggio di Old Crow, fotografato da Bonatti nel suo reportage. Partecipare al gathering è stato un vero privilegio, un modo per ascoltare direttamente la voce dei nativi d’America. I Gwitch’in hanno discusso a lungo dei gravi cambiamenti climatici in corso. Il maltempo ultimamente sta indebolendo l’attività della pesca e della caccia, unico sostentamento di questa comunità. E’ cambiato molto lo Yukon nei cinquant’anni che separano la mia esperienza da quella di Bonatti. Oggi c’è molto più turismo, l’attività di estrazione dell’oro ha raggiunto livelli tecnologici inimmaginabili, le perturbazioni sono sempre più violente e improvvise. Rimane identica negli anni la forza e l’ospitalità della gente, i profili delle montagne e, soprattutto, la malinconia che ti colpisce quando torni a casa.

Avendo interrotto la spedizione in canoa perché le condizioni del fiume non permettevano di proseguire senza andare incontro a seri rischi, ho comunque deciso di rientrare in autostop da Fairbanks, via Vancouver, fino a Toronto (9000 km) totalizzando circa sedicimila chilometri in strada e millequattrocento in canoa in cinque mesi di spedizione (preparativi inclusi). Un’avventura forte e intensa, che in un certo senso ha avuto origine cinquant’anni fa e che oggi si chiude con la pubblicazione del documentario: The Yukon Blues. Ma dalla nostalgia dello Yukon sarà difficile separarsi, finché il fiume chiamerà a sé qualcun altro.

Foto di Igor d’India | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com

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