Sri Lanka: Ambalangoda, umanità mistica

ambalangoda

Prendere un treno in Sri Lanka è un’esperienza che vale la pena indipendentemente dalla meta: arrivati alla stazione di Colombo, io e il mio compagno di viaggio chiediamo un biglietto per Hikkaduwa, con l’intenzione di fermarci per qualche ora a metà strada, nel villaggio di Ambalangoda. L’impiegato addetto alla vendita ci annuncia che il posto sul vagone “non è garantito”, e senza un’idea precisa di cosa ciò possa significare attendiamo l’arrivo del nostro mezzo su una banchina che non sembra aver subito modifiche dai tempi in cui fu costruita, nel 1908. Quando, con gran trambusto di ferraglia, il treno fa il suo ingresso in stazione, realizziamo il senso delle parole del commesso: dalle porte aperte dei vagoni sbucano passeggeri a decine, appesi alle maniglie di sostegno e arrampicati sugli scalini d’ingresso, mentre dai finestrini si affacciano con tutto il busto molti bambini, costretti dalla calca a rimediare un po’ d’aria all’esterno.

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In molti scendono a Colombo, perciò saliamo in tutta fretta sul nostro vagone di seconda classe nell’utopia di recuperare almeno un posto a sedere, ma abbandoniamo velocemente l’illusione. Devo tuttavia ringraziare la sorte per quel posto mancato: mi sono seduta sui gradini della scala d’ingresso, e ho completato l’itinerario con la brezza sul viso e la totale incapacità di gestire lo stupore per i fotogrammi di natura e umanità che mi passavano davanti. L’oceano infuria (è la stagione dei monsoni) e i villaggi si alternano alle foreste di palme e alle stazioni intermedie in un tripudio di disordinata allegria tropicale. Un signore cingalese che vive a Monaco ed è in Sri Lanka per le ferie prende il mio ragazzo in simpatia, e gli dà alcuni consigli per visitare Ambalangoda che ci fanno optare per un cambio di programma nella nostra scaletta.

medico-ayurvedaIl medico ayurveda

Scesi a destinazione, accordiamo con un conducente di tuk tuk un prezzo irrisorio perché ci accompagni nel corso della giornata, e come prima tappa facciamo rotta verso la meta principale suggerita dal nostro conoscente di vagone: la casa di un medico ayurvedico che sta studiando per il suo praticantato, e svolge perciò visite gratuite sui pazienti che lo raggiungono a domicilio. Si presenta come il dottor Sasi Kumar, e ci racconta di essere l’unico tamil della zona. È cristiano, ha sposato una donna cingalese buddhista e ogni mattina prega Gesù Cristo, fa meditazione di fronte a un simulacro di Buddha e omaggia Allah in moschea. Con un sorriso, ci confessa di essere felice. Sasi ci mostra quali piante del suo giardino utilizza per preparare i medicinali, ci chiede un po’ di noi e pensa a un trattamento per ognuno: contro il mal di testa per me, contro i dolori muscolari per Yannick. Dedica a ciascuno un intenso massaggio di scalpo e schiena, e quando ci congediamo ci sentiamo meglio: forse per l’effetto dei preparati del medico, ma più probabilmente per la serenità che ci ha trasmesso la sua persona.

buddha-sdraiatoIl Buddha sdraiato

Nella tarda mattinata il nostro tuk tuk si arrampica con gran sobbalzare lungo l’accidentato percorso di una strada bianca che spezza la fitta vegetazione. Ai lati della corsia, nella boscaglia, accelerano il passo alcune iguane disturbate dal rumore. Raggiungiamo la cima del monte sul quale si erge il tempio di Galgoda Sailatalaramaya Maha Vihara, contenente la statua di un enorme Buddha che dorme sdraiato su un fianco. Siamo gli unici visitatori, e un monaco giovanissimo che non parla inglese dà alcune mandate di chiave alla serratura della stanza che ospita l’attrazione. Si accosta all’ingresso per farci entrare e lasciarci osservare il Buddha, che domina lo spazio con la sua presenza polverosa, tra la luce che filtra dalle finestre e l’odore di chiuso. È un posto decadente, ma emana un misticismo che i templi tirati a lucido e ben frequentati non possono garantire.

Arriviamo a Hikkaduwa la sera. Ci accoglie nella sua guest house una signora tedesca, Tina, che vive in Sri Lanka da trent’anni, parla il cingalese e coniuga il rigore teutonico a una gestualità che tradisce i tre decenni di vita nell’isola. Passiamo qualche ora con lei e alcuni inservienti nella terrazza rialzata che domina la sua pensione, bevendo tè e scacciando le zanzare. Siamo gli unici clienti della struttura: il tempo dei monsoni non attira i turisti occidentali, che preferiscono la zona nei periodi in cui la spiaggia corrisponde all’immagine delle cartoline.

Io però l’oceano lo preferisco così: grigio, ornato di schiuma biancastra, che non risuona di nessuna chiacchiera se non quella delle onde. Domani ci attende Galle.

di Giulia Usai | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com

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