Etiopia, presepe africano
Nell’altra Gerusalemme, quella africana, il Natale si inscena il 7 gennaio. Migliaia di pellegrini scivolano tra le chiese rupestri, scavate nella roccia, cullando la Natività copta con canti e preghiere della tradizione.
Lalibela, patrimonio dell’Unesco. Lalibela, la “Petra africana”. La leggenda vuole che a costruire quella che alcuni considerano l’ottava meraviglia del mondo sia stato un principe nato nella seconda metà del XII secolo. Nato e avvolto, nella culla, da uno sciame d’api, in un luogo dove gli animali hanno il dono di presagire il futuro di grandi personaggi. Alla vista dello sciame la madre grida “Lalibela!”, ovvero “Le api riconoscono la sua sovranità” e il futuro re viene così battezzato. Il bambino cresce, ma il sovrano regnante, invidioso, lo avvelena. “Assunto in cielo”, Lalibela riceve la rivelazione di Dio: “Sopravviverai e diventerai re e in cambio costruirai 11 chiese quali il mondo non ha mai visto prima”.
Le chiese, scolpite nella roccia, sono arrivate intatte sino a noi. Si trovano a un’altitudine di circa 2600 metri, nell’acrocoro più vasto d’Africa, un altopiano che si snoda dal Sudan al Kenya e che costituisce quasi la metà del territorio etiopico. Una distesa in cui si alternano vette a tavolati, dove il vento, l’acqua e il sole scavano la pietra, le imprimono forme che si stagliano, indelebili, nella memoria di chi passa. Dove i colori delle rocce e della piana disegnano una tela dalle tinte forti, abbaglianti e suggestive. Dove la mano umana si è fusa con la terra e le chiese paiono sorgere dalla pietra stessa e formare con essa un tutt’uno imprescindibile.
Leggenda a parte, esiste una ragione storica alla base di questo complesso. Il cristianesimo diventa religione di stato, in Etiopia, all’inizio del IV secolo, in pieno regno aksumita e nel periodo di suo massimo splendore, quando i confini si estendono dalla valle del Nilo sudanese a vaste aree dell’Arabia meridionale, sulla costa opposta del Mar Rosso. La città di Aksum è prosperata e prospera anche grazie alla sua posizione strategica, sulla rotta dei commerci tra il Mediterraneo e l’oceano Indiano. Entra in crisi, con l’intero regno, con l’avvento dell’islam, quando gli arabi diventano i nuovi signori del Mar Rosso. Nel XII secolo, in pieno declino, il regno trasferisce la propria capitale più a Sud, a Roha, futura Lalibela. E a Lalibela la dinastia Zagwe, di cui il principe e futuro re fa parte, costruisce le chiese rupestri, al riparo da occhi indiscreti ed eventuali incursioni, in un mimetismo con la roccia che costituisce, ancora oggi, uno dei principali ingredienti del misticismo del luogo. La posizione delle chiese, sottoterra e protette dalla roccia stessa da cui sono state ricavate, ha consentito che arrivassero fino a noi nonostante l’imponenza del clima etiopico. L’isolamento cui la città è andata incontro nei secoli successivi ― il primo europeo a visitare Lalibela sarà un frate portoghese nel secondo decennio del XVI secolo ― ha fatto il resto: oggi, chi si reca a Lalibela si trova avvolto e travolto da riti che hanno l’odore e il sapore del cristianesimo delle origini.
Decidiamo di arrivare a destinazione qualche giorno prima della notte tra il 6 e il 7 gennaio, data in cui ha luogo il Genna, il Natale copto. La chiesa etiope abbraccia ancora l’eresia monofisita, che attribuisce al Cristo una sola natura, quella divina, e continua a seguire, a tutt’oggi, il calendario giuliano. Sullo sfondo scuro delle rocce e della notte sfiorata dall’alba il colore che prevale è il bianco, quello dei vestiti, gli shamma, e dei copricapi dei pellegrini giunti da tutta Etiopia: uomini e donne, bambini e anziani, sani e malati. I loro volti, giovani e fieri o segnati dal tempo e dalla vita, conservano ancora un’aura regale: chissà, forse sono davvero i discendenti della regina di Saba, che andò in visita a Gerusalemme ed ebbe un figlio da re Salomone, Menelik. Secondo, la Kebra Nagast, loro saga nazionale, fu lui a portare in patria l’Arca dell’Alleanza, lo scrigno che racchiude le Tavole della Legge dettate da Dio a Mosé, le tabot. Ogni chiesa ha le sue, in rappresentanza di quelle originali, conservate, si dice, ad Aksum, e nel giorno dell’Epifania queste lastre scolpite in legno o pietra vengono portate in processione, ricoperte di sete e broccati che le nascondono allo sguardo, dissacrante, della gente, perché, come afferma Graham Hancock, “Le tabot sono consacrate più ancora delle chiese che le ospitano… Senza una tabot nel segreto del suo Sancta Sanctorum una chiesa non è che un guscio vuoto, un morto edificio non più importante di qualsiasi altro”.
Aspettando il Natale, i pellegrini tutt’intorno si perdono in attività che sono anche quotidiane. C’è chi rammenda il proprio abito, chi va a prendere l’acqua o prepara il pasto con il pane schiacciato ― chiamato ingera ― a base di teff, un cereale resistente alla siccità che è da secoli uno dei cibi principe della dieta etiope: ne sono stati rinvenuti dei semi nella stessa chiesa di Bet Giyorgis. C’è chi, ancora, si ripara sotto un albero: siamo in inverno, è vero, ma pur sempre in Africa, di giorno il sole è caldo e abbaglia, di notte il freddo è pungente. In mezzo a gesti di tutti i giorni, tra pellegrini che ancora si aspettano miracoli, pare davvero di essere tornati ai tempi in cui Cristo camminava tra la folla.
La Vigilia aggiunge altra suggestione a un’atmosfera che già ne è intrisa. Attorno a noi si leva una nenia in ge’ez, antica lingua semitica. Tamburi e sistri, sonagli agitati da preti e diaconi a ogni passo di danza, accompagnano la melodia, in un lento salmodiare che trasporta indietro nel tempo e in un’altra dimensione, quella di una spiritualità primordiale che è ormai difficile trovare, per noi cristiani, in una funzione all’interno di una chiesa. Poi, d’un tratto, l’Africa irrompe, in un fragore regale di percussioni: sono donne, quelle che suonano, e il ritmo è quello della terra, del suo battito che riecheggia e amplifica quello del cuore umano. È natura ovunque, anche negli ombrelli cerimoniali, che non a caso simboleggiano le sfere celesti, e paiono, con il loro roteare, infuocate nebulose.
Le chiese sono collegate tra loro da una fitta rete di cunicoli e circondate da cortili, e il pellegrinaggio, cominciato per alcuni giorni addietro, continua da un cunicolo all’altro, da un cortile all’altro, da un edificio all’altro tra luci soffuse, spesso di candela. Ci infiliamo nella galleria che porta a Bet Mariam, la Casa di Maria: è così che si chiamano le varie chiese, case, come la Casa del Padre, in nome di quell’accoglienza che fu soave richiamo per i cristiani di un tempo. È impossibile non pensare a Roma e alle catacombe, non tornare, ancora una volta, alle origini, in un luogo dove i nomi sono quelli di Gerusalemme, dal fiume Giordano al Calvario alla Tomba di Adamo: fedeli alla leggenda secondo la quale re Lalibela, al ritorno dall’esilio in quelle terre, avrebbe mantenuto il voto fatto di costruire una nuova città santa in Etiopia. Il buio del cunicolo costringe a volte a camminare a tentoni, ad appoggiarsi alle pareti umide. A terra la paglia, abitata dalle pulci, lascia per l’occasione spazio, a tratti e nei cortili, a tappeti dai colori caldi, che richiamano i broccati e gli ori dei paramenti dei diaconi. Ricchezza e povertà camminano fianco a fianco, ma la dignità è ovunque, forse ancora di più negli shamma dei pellegrini. Siamo all’aperto ora, e piano piano risaliamo verso l’alto. Di lì a poco non ci muoviamo più, tanta è la calca, e ci ritroviamo appollaiate a guardare Bet Mariam, con il suono delle nenie e dei tamburi che sale, ci avvolge in un manto sacro e ci toglie ogni pensiero. Restiamo così, immerse nel calore umano dei fedeli, per un tempo che non riusciamo neanche a contare. Le impressioni di questi giorni ci passano davanti e con loro il contrasto, solo apparente, tra la vastità dei paesaggi e la calca, quasi claustrofobica, dei pellegrini. Tra l’infinito e il senso di raccoglimento dovuto a riti vissuti nella dimensione atavica della comunità. Poi, d’improvviso, il sole sorge e festoso e catartico si leva, davanti e attorno a noi, un ultimo canto: “È nato, è nato, è nato!”.
Testo di Elena Malanga – Foto di Alexandra Schileo | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
Sfoglia il magazine – Vai alle infoutili
Caro lettore,
Latitudes è una testata indipendente, gratis e accessibile a tutti. Ogni giorno produciamo articoli e foto di qualità perché crediamo nel giornalismo come missione. La nostra è una voce libera, ma la scelta di non avere un editore forte cui dare conto comporta che i nostri proventi siano solo quelli della pubblicità, oggi in gravissima crisi. Per questo motivo ti chiediamo di supportarci, con una piccola donazione a partire da 1 euro.
Il tuo gesto ci permetterà di continuare a fare il nostro lavoro con la professionalità che ci ha sempre contraddistinto. E con lo stesso coraggio che ormai da 10 anni ci rende orgogliosi di quello facciamo. Grazie.