Le “città ferite” emanano da sempre un fascino misterioso, quasi atavico. Una di queste è Sarajevo: segnata da una storia millenaria, contesa da tre imperi, attraversata da popoli, religioni, etnie diverse, e ferita da una guerra le cui cicatrici sono ancora visibili sulle facciate dei palazzi e sui volti della gente. Una città che sicuramente non lascia indifferenti.
La prima cosa che colpisce della Sarajevo di oggi è la sua vivacità: i giovani affollano i locali e i bar attorno alla fontana Sebilj e sono subito disponibili ad aiutare gli spaesati turisti che cercano di orientarsi tra le strette vie del centro antico. Il cuore della capitale bosniaca è un reticolo di strade, piazze e vicoli che si snodano attorno a basse case dalle mura bianche. È attraverso questi luoghi che rivive la storia della città dove Occidente e Oriente si incontrano e, purtroppo, si scontrano: tracce dell’era romana, slava, medievale, ottomana e asburgica confluiscono nella grande polveriera balcanica, fino ai tragici eventi del 1992-95.
La mia visita parte dalla zona alta di Sarajevo, dal cimitero musulmano Alifakovac, le cui tombe sono orientate verso La Mecca, come vuole la tradizione islamica. La bellezza della città vista dall’alto è sontuosa, ma è la sua diversità a renderla unica: nel giro di 5 km a piedi, mi imbatto nella Sinagoga Ashkenazi, la terza più grande in Europa; visito la Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù, costruita nel 1889 in stile gotico e la bellissima Cattedrale ortodossa della Santa Madre, del 1868. E ancora: la Moschea dell’imperatore, costruita nel 1457 in onore del sultano Mehmed, la Chiesa Francescana di Sant’Antonio da Padova in stile neo-gotico, e il ponte latino, divenuto famoso dopo l’attentato di Sarajevo del 1914.
La Baščaršija (mercato principale) è il cuore della città vecchia: dell’antico e grande mercato, rimane oggi solo una parte, ma camminare attraverso strade strette, bazar e caffè, da l’idea di com’era la vita nella Sarajevo ottomana. Proprio al centro della Baščaršija, di fianco alla torre dell’orologio, sorge la moschea di Gazi-Husrev Bey, capolavoro islamico del 1531.
A pranzo, assaggio i Sarajevski Sahan, degli involtini di verdure con dentro carne e salse piccanti, serviti con purè di patate e somun, il pane di derivazione turca e accompagnati dalla Serajevska Pivara, la birra ancora prodotta in città.
Subito dopo percorro tutta la Ferhadija, la strada commerciale che culmina con la fiamma eterna, accesa in ricordo dei caduti della seconda guerra mondiale. La Ferhadija si ricongiunge poi con la Ulica Marsala Tita, la strada intitolata al Maresciallo Tito, che termina con il monumento ai bambini morti durante l’assedio di Sarajevo. Dei cilindri in ferro battuto riportano i loro nomi.
Costeggiando la splendida Accademia delle Belle Arti, lungo il corso del fiume Miljacka, si arriva ad uno dei simboli della città: la biblioteca nazionale di Bosnia-Erzegovina. Un’incisione in marmo all’entrata recita: “In questo luogo i criminali serbi nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 diedero alle fiamme più di due milioni di libri, giornali e documenti. Per non dimenticare”. Tra il 1997 e il 2004 la Vijećnica è stata ricostruita ed oggi è possibile ammirare le sue meravigliose sale, il tetto di vetro e le colonne di pietra.
Di pomeriggio nella Baščaršija bevo l’ottimo tè turco servito con la baklava, dolce di pasta filo, nocciole e agda, uno sciroppo particolarmente dolce e visito il mercato coperto di Markale, dove si trova davvero di tutto: dai classici souvenir alle composizioni degli artisti locali, dai tessuti alle spezie orientali. A cena, invece, mangio i tradizionali ćevapčići, un piatto a base di carne trita di manzo, condita con sale, spezie e aromi, serviti all’interno del pane somun con cipolla bianca ed ajvar, una salsa ai peperoni rossi.
Sarajevo di sera è ancora più affascinante: i locali sono pieni e dappertutto si sente il profumo dolce ed avvolgente del narghilè e si beve il Bosanka Kafa, il buonissimo caffè bosniaco servito nelle fidzani, tazzine di origine turca. Proprio il caffè è la bevanda nazionale in Bosnia: nel 1571, cento anni prima di Londra o Parigi, Sarajevo è stata la prima città in Europa (dopo Istanbul), ad avere dei locali in cui consumare e comprare caffè.
La mattina successiva visito la Casa Svrzo, una classica abitazione ottomana del secolo XVIII, che rappresenta l’ultimo esempio di architettura tradizionale bosniaca perfettamente conservata (la sala da pranzo, il dormitorio, la stanza per gli ospiti, ecc.).
Ma la tappa più toccante è quella alla Galleria 11/07/1995, una mostra fotografica ed audiovisiva sul massacro di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo. Le emozionanti foto di Ron Haviv e Tarik Samarah raccontano quei lunghi giorni di terrore e disperazione, lasciando il visitatore particolarmente toccato dalla crudezza delle immagini e dalle testimonianze dei sopravvissuti.
Altro luogo significativo è il “tunnel della speranza”, che si trova appena fuori Sarajevo. Durante l’assedio, attraverso questo tunnel, i bosniaci riuscirono a far arrivare cibo, medicinali e armi alla popolazione, superando l’area occupata dalle milizie serbe, ed evitando così che la città fosse davvero isolata dal mondo.
A cena, mentre le luci dei bazar e dei negozi si illuminano ai piedi della moschea della Baščaršija, mangio la Bosanski Lonac, una zuppa di spezzatino di carne, patate, cipolle, carote, pepe e sale.
Ripenso alla scritta incisa sul pavimento lungo la Ferhadija: “Sarajevo meeting of cultures”. È questo l’aspetto più emozionante e anche più tragico di una città della quale ci si sente subito parte. Mi tornano in mente le immagini degli anziani che giocano a scacchi con le grandi pedine sulla piazza della cattedrale ortodossa, dei muezzin che dai minareti richiamano i fedeli alla preghiera, dei gesti lenti delle persone, delle facciate sventrate di alcuni edifici.
Sarajevo è una città che assorbe completamente con i suoi profumi, i suoi colori (a volte anche tetri e grigi), la sua storia, la sua diversità. Città tormentata, affascinante, misteriosa, sofferente… i cui generosi abitanti stanno cercando di recuperare quell’armonia tra le diversità che li ha contraddistinti per secoli. Il leitmotiv di un viaggio nella capitale bosniaca è sicuramente “Sarajevo, mon amour”, parafrasando il titolo di un famoso libro di Jovan Divjak. E se lo dice un Serbo…
di Angelo Laudiero |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
Caro lettore,
Latitudes è una testata indipendente, gratis e accessibile a tutti. Ogni giorno produciamo articoli e foto di qualità perché crediamo nel giornalismo come missione. La nostra è una voce libera, ma la scelta di non avere un editore forte cui dare conto comporta che i nostri proventi siano solo quelli della pubblicità, oggi in gravissima crisi. Per questo motivo ti chiediamo di supportarci, con una piccola donazione a partire da 1 euro.
Il tuo gesto ci permetterà di continuare a fare il nostro lavoro con la professionalità che ci ha sempre contraddistinto. E con lo stesso coraggio che ormai da 10 anni ci rende orgogliosi di quello facciamo. Grazie.