Così facili da raggiungere, così poco conosciute. Alla scoperta di bellezze e bontà, tra la collina e l’Appennino, dove si sente il mare.
Un angolo appartato di Piemonte stretto fra Lombardia, Emilia, Liguria. E tre torrenti scaturiti dalla montagna – Curone, Grue, Ossona – che scendono dalla parte “sbagliata” a rimpinguare le acque capricciose della Scrivia.
La terra del Giarolo è stata storicamente contesa fra le potenze che prima dell’unità d’Italia si disputavano le vie di transito tra la pianura padana e il mare. Già dall’antichità una delle principali vie del sale passava da questi monti. Il prezioso minerale, indispensabile per la conservazione dei cibi, dalla costa ligure via Tortona e la bassa poteva essere trasportato anche fino alle valli svizzere sfruttando i laghi e i valichi non troppo impervi dell’Ossola.
[alert color=”EF9011″ icon=”127758″]DOVE SI TROVANO LE TERRE DEL GIAROLO?[/alert]
Molte le definizioni per dare identità a un’area che appartiene amministrativamente al Piemonte ma di fatto è accomunata per tradizioni, cultura, usanze alle altre tre regioni confinanti. Se ne parla come di una porzione della Marca Obertenga, il vasto territorio controllato dalla dinastia di Oberto I tra il X-XI secolo. Oppure ci si riferisce al lungo periodo dei Feudi Imperiali, durato fino all’arrivo di Napoleone, quando i possedimenti erano suddivisi fra diverse nobili famiglie, come Fieschi, Doria, Malaspina, Spìnola. In anni recenti si è fatto strada l’inquadramento del Giarolo nel territorio definito Quattro Province, la parte convergente sull’Appennino e le sue propaggini delle province di Alessandria, Pavia, Piacenza, Genova. Volendo evidenziare così che per secoli la gente ha vissuto in modi simili e con le stesse abitudini, ha commerciato, festeggiato, cantato, ballato, si è fidanzata e sposata scavallando volentieri da un passo all’altro, infischiandosene bellamente di pietre miliari e dogane.
Di tante stratificazioni quel che oggi rimane è una terra di confine per fortuna in gran parte integra, genuina, autentica, a vocazione agricola e vinicola. Importanti strade e autostrade la sfiorano, ma nella corsa infoiata verso la riviera la massa dei turisti nostrani l’ha per lo più snobbata. Diverso il discorso per gli stranieri, spesso più inclini alla scoperta e all’esplorazione dei luoghi d’Italia un po’ marginali. Vengono, soggiornano in un agriturismo, percorrono sentieri e sterrate in bici o camminando. Incontrano una collina dove la vite si alterna a frutteti, praterie e boschi rigogliosi, in uno scenario articolato, dolce e composito, così diverso dalla piattezza di tanta monocoltura collinare piemontese. Poi arrivano in alto, dove lo sguardo raggiunge nelle belle giornate l’azzurro scintillante del Mar Ligure, che quasi pare di aspirarne la salsedine. Assaggiano prodotti dal sapore antico e indimenticabile, un vino bianco semisconosciuto da non credere, formaggi senza tempo, salumi di puro artigianato. E allora ripensando alle code di villeggianti smaniosi e furenti in migrazione verso il bagnasciuga o un outlet, sorridono compiaciuti riempiendo le sporte di leccornie.
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Un viaggio da queste parti non può seguire una geografia rigida: il Giarolo è una porzione integrante del Tortonese. Terra tutta da percorrere, magari proprio a pedali sulle tracce dell’inarrivabile Fausto Coppi da Castellania. Vagabondando s’incontrano arte, architettura, archeologia e storia, antica e recente e, dulcis in fundo, tantissime cose buone. Poco prima che la Val Curone si faccia collina, a Viguzzolo si trova la bella pieve romanica di Santa Maria Assunta dell’ XI secolo, e poco oltre, a Volpedo quella di San Pietro, fondata nel X secolo. A Volpedo la memoria s’innesta automaticamente e ci dice che questo è il paese del pittore divisionista Giuseppe Pelizza, autore del celeberrimo Il Quarto Stato. Il ricordo di Pelizza permea l’atmosfera del paese, con l’allestimento di riproduzioni di opere famose disseminate nel borgo, ma soprattutto nello studio-museo del pittore dove sono conservati alcuni cimeli e alcune opere minori. La zona è famosa anche per le pesche di Volpedo, di qualità eccelsa, perfette allo sciroppo.
Si risale la Val Curone, in assoluto la più orientale del Piemonte, immergendosi nel passato remoto al castelliere di Guardamonte. Nell’area è situato uno dei più antichi insediamenti dell’Italia settentrionale, utilizzato a partire dal neolitico da stirpi liguri e poi da altre popolazioni fino all’epoca romana e a quella imperiale, come testimoniano i numerosi ritrovamenti. Un emblema della colonizzazione dell’Appennino, da approfondire visitando il museo di Brignano Frascata. Il paese era un antico feudo della famiglia Spìnola. Vi si trova un castello di piacevole aspetto, nonostante diversi interventi di riqualificazione e ampliamento che hanno parzialmente modificato la struttura originale del XVII secolo. Se amate come le terre di confine e i loro paradossi, non vi potrà sfuggire il destino curioso della località Serra del Monte: un unico abitato suddiviso in due frazioni, l’una in comune di Brignano-Frascata (provincia di Alessandria, Piemonte) l’altra in comune di Cecima (provincia di Pavia, Lombardia). Le cime appenniniche fanno da richiamo, i boschi s’infittiscono e certificano il mito di funghi deliziosi e tartufi che onoravano le corti lombarde. San Sebastiano Curone, tanto per disorientarci, è già decisamente avamposto di Liguria. Il borgo antico con i carruggi ombrosi è architettura d’oltre confine per quello che fu ultimo posto di guardia tra ducato di Milano e Repubblica di Genova. Ma anche luogo di scambi e commerci un tempo fiorente, ancora oggi aperto all’accoglienza del visitatore, per mangiare, bere e all’occorrenza dormire comme il faut.
Un ultimo piacevole sforzo e siamo alla chiusura della valle. Il comune di Fabbrica Curone s’insinua come uno sperone nelle tre regioni attigue. Pare di cogliere anche nel dialetto una piccola babele di termini e accenti forestieri, intanto si respira aria buona e si ammira la Pieve gotico-romanica del IX-X secolo dedicata a S. Maria Assunta. Da qui partono alcuni sentieri per scoprire il patrimonio ambientale e naturalistico del territorio, e visitare i villaggi abbandonati, una piaga comune a tanta parte di Appennino. In questa nicchia geografica anche il mangiare e il bere sono spesso sinonimo di rarità. A Fabbrica si trova uno dei pochi caseifici che hanno ripreso a produrre dopo anni di oblio il perduto formaggio Montébore, dal gusto inimitabile così come la forma, una torta a tre o cinque piani. Il grosso dei produttori si trova più a ovest, intorno al comune di Dernice, di cui Montebore è una piccola frazione. La storia di questo formaggio è antichissima, e gli estimatori fra i più illustri, se si pensa che venne scelto da Leonardo da Vinci in persona per onorare il banchetto nuziale di Isabella di Aragona e Gian Galeazzo Sforza in quel di Tortona nel 1489.
Seguiamo anche noi l’aroma inconfondibile del Montébore, buscando l’occidente. I comuni che ora s’incontrano, dopo aver sfilato l’Appennino emiliano, confermano la genia di Genovesato, recando nel nome il marchio d’origine: il suffisso “Ligure” affianca Carrega, e poi lungo il Borbera Cabella, Albera, Rocchetta, Cantalupo, e ancora Mongiardino e Roccaforte intorno alla verdissima Valle Spinti. I torrenti indicano nuovamente la collina, ma intanto ci saremo opportunamente ricordati di fare incetta dei buoni salumi tradizionali. Il salame Nobile del Giarolo ha tutta la schiettezza del prodotto artigianale verace; si fa fino a 18 mesi di stagionatura, ma nella pezzatura detta “cucito” può arrivare a 24 guadagnando ancor più in sapore e aroma senza perdere morbidezza.
Si arriva a Garbagna ed è ancora sigillo di Liguria, per le case e le vie acciottolate che si stringono sboccando nelle piazze. La più bella è piazza Doria, con gli ippocastani a guardia dell’antico pozzo pubblico e l’omonimo palazzo, in epoca di signorie sede del Commissario feudale. In primavera la campagna si tinge di rosa: le ciliegie di Garbagna sono una vera delizia ricercata dagli intenditori. Chi viene in stagione non se le faccia sfuggire. Proprio da queste parti i vecchi ricordano un ragazzino dall’apparenza gracile – le braccia come remiganti le gambe come mulinelli – volare chino sui pedali. Il garzone di panettiere delle consegne fulminee già negli allenamenti mandava inequivocabili segnali da fuoriclasse. Faustino Coppi partiva da Castellania e in un baleno era un puntino sulla strada. Ore e ore dopo rieccolo, con appena un po’ di fiatone, fresco come una rosa. La casa museo intitolata a lui e al fratello Serse è meta costante di pellegrinaggi, pure di gente che di ciclismo sa poco o niente, ma percepisce in quel nome il mito di un uomo speciale in tempi di mediocrità dilagante.
Il comune conta solo una novantina di abitanti. In compenso la collina ammantata di viti, conosciuta per barbera, dolcetto, croatina, cortese che da qui si estende a contornare la città di Tortona nascondeva un piccolo tesoro dimenticato. Ma ben pochi se n’erano accorti. Fin quando, a metà degli anni 80, il negletto vitigno autoctono Timorasso come il rospo della favola trovò qualcuno che ruppe l’incantesimo per trasformarlo in principe. Oggi finalmente se ne ricava un bianco di grande stoffa, capace di vedersela con i migliori francesi da invecchiamento. Da poco il Consorzio dei vini del Tortonese ha approvato per questo gioiello la denominazione Derthona, l’antico nome romano che lo legherà indissolubilmente al territorio. I migliori produttori sono disseminati intorno al capoluogo, in diversi comuni. Non si sbaglia puntando su Monleale, Montemarzino, Costa Vescovato, lo stesso Castellania, Carezzano, Sarezzano, Pozzolgroppo e nei dintorni, dove l’istinto ci guiderà.
Il nostro breve e intenso tour non poteva finire più lietamente, rafforzando per questa terra di agricoltura vera e resistente l’immagine del popolo contadino scolpita nel Quarto Stato: un incedere lento, dignitoso, determinato, verso la vittoria. Forse lontana ma ineluttabile.
di Teresa Scacchi e Gianfranco Podestà|Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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