Il primo contatto con l’India è di quelli che si ricordano per una vita. Dirigendosi dall’aeroporto di Chennai alla stazione centrale dei pullman, sembra di trovarsi in un campo di sfollati: una massa di corpi ricopre ogni centimetro libero di pavimento. Con viaggi che durano fino a 3 giorni consecutivi, aspettare in India è una condizione normale: la coincidenza per il giorno successivo, il bus in ritardo di alcune ore, i parenti in arrivo. Da qui all’ex colonia francese di Pondicherry sono altre 3 ore, attraverso una vegetazione fiabesca avvolta nella nebbia, dove la vita locale,

nonostante sia ancora l’alba, già si attiva per tirare avanti un’altra giornata. Con un terzo autobus ed un breve viaggio in auto-rickshaw si giunge finalmente a destinazione: la comunità di Auroville. Sorta a partire dal 1968, ha lo scopo di sperimentare una nuova forma di società alla ricerca dell’ “unità umana”, dove “le nazioni siano capaci di vivere in pace e progressiva armonia sopra ogni credo, politica e nazionalità”. Auroville diviene presto famosa, tanto da essere appoggiata dall’UNESCO e dalle 124 nazioni che partecipano alla sua inaugurazione. Dopo oltre 40 anni, il progetto va ancora avanti ed è oggi costituito da oltre 100 comunità sparse su un’area di 20 km2, che praticano agricoltura biologica, ricerca, yoga, arte, medicina alternativa, servizi turistici. Ma il punto focale di Auroville è il Matrimandir, un tempio riconoscibile per il suo aspetto simile a una sfera dorata, adagiata su 12 petali laterali. Una visita dell’interno, possibile solo su prenotazione telefonica, lascia a bocca aperta: un’architettura futuristica dove una rampa spiraliforme porta alla sala centrale immersa in un’atmosfera di pace. Dei 9 mesi passati in viaggio, il Matrimandir rimane una delle viste che più mi sono rimaste impresse nell’anima. Per chi volesse dedicare del tempo come volontario ad Auroville, è possibile accordarsi con una delle molte realtà presenti sul territorio: decido così di passare 4 settimane presso la comunità di Sadhana Forest. All’apparenza è solo una

serie di capanne, costruite con materiali e manodopera locali, all’interno della quale interagiscono i volontari, fino a 150 contemporaneamente. Lavoro, musica, condivisione: la vita comunitaria è un aspetto fondamentale di questo progetto. Nata solamente 7 anni fa, Sadhana Forest ha come obiettivo primario quello della riforestazione, ed in particolare la ricreazione della “Tropical dry evergreen forest”, la foresta originaria del luogo distrutta dal disboscamento del periodo coloniale. Dal giorno della sua creazione, sono stati piantati oltre 20 000 alberi di 150 specie diverse. Ma uno dei meriti principali di questo progetto, è quello di fungere da centro di apprendimento delle pratiche di vita sostenibili. “Possano esserci più foreste per crescere le persone”: questo è il motto che caratterizza questa visione. Infatti si vive una esperienza sostenibile a tutto tondo a partire dalla dieta, strettamente vegana. Grande attenzione è posta nell’evitare il minimo spreco di acqua, si usano dei bagni a secco e non esiste neanche la corrente elettrica, se non nella capanna

comunitaria. Un impianto fotovoltaico autonomo e staccato dalla rete, provvede alla produzione del minimo di energia necessaria, che durante la stagione delle piogge viene integrata da un sistema ad “energia umana”: 4 biciclette collegate ad una dinamo. E grazie ad eventi di sensibilizzazione ambientale per adulti e bambini, si cerca di far partecipi del progetto anche gli abitanti locali. Sadhana Forest è una realtà in espansione, ed il secondo progetto è già partito recentemente ad Haiti per dare aiuto e sollievo alle popolazioni locali, dando l’esempio su come ricominciare dopo la catastrofe, in modo sostenibile.
Testo e foto di Davide Vadalà
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