A piedi attraverso i Monti Sayan nella Siberia meridionale
“Hai visto, ci sta guardando col naso!”. Sasha ride mentre ridà gas al motore fuoribordo che spinge la piccola lancia azzurra attraverso il lago cristallino. In alto, sulla sponda orientale del lago un maschio di orso bruno attraversa una radura mostrando la sua massa muscolosa. L’olfatto potentissimo gli racconta il passaggio di tre uomini in barca, abbastanza lontani da non interrompere il suo compito. Sta battendo il terreno, insetti, piante, carcasse se le troverà: sta facendo scorte, l’istinto gli dice di prendere peso perché l’estate in Siberia è intensa ma breve. Tra qualche settimana il lago tornerà a farsi di pietra, e la neve imbiancherà tutto, smorzando il verde abbagliante della foresta ora screziata appena dall’oro pennellato dalle betulle.
Verde foresta d’estate nel Parco Nazionale Federale di Tofalaria, Siberia. I colori sono quelli che Sasha indossa nella sua vecchia mimetica da guardiacaccia sovietico. Biondo come il grano del Volga, Sasha è la guardia forestale che nella taiga sei contento di avere accanto. Sorridente ma di poche parole, disponibile a spiegare quando riesco a mettere insieme abbastanza parole russe da fare una domanda e sempre ben armato del suo fucile, che nella settimana passata insieme non toccherà mai se non per controllare che sia sempre in ordine.
Non si sa mai. Qualche giorno fa un maschio di quattrocento chili è stato sorpreso da Vladimir a far scorta in una capanna dei forestali al Lago Agul – un giorno di marcia da questo Lago degli Orsi dove ci troviamo. L’animale aveva sfondato la piccola finestra della capanna e quando è stato scoperto ha avuto paura. Anche Vladimir ha ammesso di aver avuto paura, mentre ci mostrava il buco che l’artiglio dell’orso ha lasciato nella sua spalla mentre lo scansava per scappare. Vladimir, forse più imbarazzo che paura: “è stata colpa mia – confessa- avrei dovuto controllare che le finestre fossero intatte e il territorio libero prima di entrare nella capanna”. Gli orsi lo fanno.
“Spaccare la legna. Ascoltare le cince tra gli abeti. Bere l’acqua del lago. Pescare. Accendere il fuoco. Mettere su il tè (a ogni momento della giornata). Guardare le nuvole che scompaiono dietro le montagne. Trovare le orme dell’orso sulla spiaggia. Camminare. Osservare le nocciolaie che nascondono i pinoli nella terra, così d’inverno avranno da mangiare. Leggere. Scrivere. Dormire. Mettere la legna nella stufa, dentro la nostra casetta di legno. Pensare. Preparare il pranzo…”.
Il diario minimo del mio compagno di viaggio giornalista-naturalista Stefano racchiude la routine magica di un viaggio in Siberia. Il resto sono gli incontri, i racconti di Nikolai e Sasha, le loro scelte di vita controcorrente. Come l’acqua di questi laghi scivola verso l’Artico, le persone di questa terra guardano spesso a Mosca, la calamita urbana di ogni speranza. Luoghi comuni che attingono profondamente alla verità: vale anche per la Siberia, a lungo sinonimo di esilio e sofferenza, minaccia suo malgrado. Terra-continente racchiusa in un nome sa essere aspra o dolcissima ed è sempre uno scrigno pieno di sorprese e lontananza. Questa immensa solitudine che atterriva persino Dostoyevsky, oggi è il regalo inatteso che ti permette di ritrovare in un luogo come il parco Federale di Tofalaria. La vita qui non è semplice, il clima si impone come la natura che ci circonda e ci sovrasta, in ogni momento. In cambio offre però suoni, profumi e orizzonti sconosciuti e primari che hanno il potere di intervenire modificandolo lo scorrere del tempo.
E allora ci si alza volentieri, presto, mentre la coperta di stelle imbianca e svanisce: la nebbia cattura la prima luce del sole che sorge oltre il Bajkal. Nel silenzio sento il balzo sull’acqua di un pesce lontano. Colazione a base di pane e pesce appena pescato nel lago, e tanto tè forte e zuccherato. Poi ci si mette in cammino risalendo il primo affluente del Lago degli Orsi. Foresta e boscaglia lungo i tracciati delle abitudini animali, fino a quando si affronta una pietraia in ombra inquadrata ancora dall’ultima neve della tarda primavera. Camminare lentamente, cercando invano una traccia di presenza umana, lontano o vicino non c’è segno da scoprire che non sia fatto dalla natura. Con la foresta alle spalle ci sentiamo più audaci: Sasha indica la rotta e noi ci concediamo variazioni solitarie per godere al massimo di questa solenne pace che ci ricade dentro con il passare delle ore. Abbiamo preso quota e le nuvole ci sfiorano spinte da sud: sole, ombra, caldo, fresco, pioggia, sole. L’estate siberiana sa essere dolce con il viaggiatore che inventa la sua traccia attraverso altipiani battuti dal vento.
Oltre l’ennesima piega della montagna, quando l’altitudine comincia a farsi sentire, mi sembra di cadere in un quadro. Nikolay Roerich, o magari di Vassily Nesterenko: una di quelle tele in cui i maestri russi hanno trasferito l’emozione dei loro viaggi in queste terre remote. Mi avevano avvertito che l’avremmo trovata dopo qualche ora di marcia: Kinsiliuk è davvero una cascata magica, generata da un lago, incastonato come un nido, tra pareti strapiombanti. Dicono sia la seconda più alta di Russia. Sarà vero in un paese dove esiste ancora l’inesplorato? Non so, ma di certo merita lo sforzo. Oltre il suo specchio s’innalza il picco Grandiosny coperto di neve, grandioso proprio come l’effetto che produce nella sua bianca solitudine. Nitido e lontano, segna il confine della regione di Tuva, anticamera della steppa mongola. Cosa c’è di meglio di un viaggio che ti lascia la voglia di tornare?
Per informazioni Russia Trekking
Testo di Gigi Donelli foto di Anton Stolbov |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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