Tibet. Esperienze e Conoscenze

Per il resto del mondo, il Tibet è il ‘Paese delle Nevi’, un’entità geografica di difficile ubicazione mentale, dato che lo si associa, istintivamente, alla grande catena montuosa dell’Himalaya, che non si sa bene dove abbia inizio e dove finisca, tanto è estesa. Il Tibet è anche il paese del ‘mistero’, perché la percezione e il sentito dire comune lo immaginano popolato di monaci dalle vesti rosse e gialle, intenti a modulare con toni bassi e uniformi lunghe preghiere-cantilena in omaggio ai simulacri di Budda (quanto diversi per grandezza e colori uno dall’altro!) contenuti nei monasteri arroccati sui monti;faticosi da raggiungere, resi vivi e festosi dalle collane di preghiere di stoffa e di carta che fluttuano nel vento. Oggi, ed è un sentimento pressoché universale, il Tibet si identifica nel suo XIV Dalai Lama, al secolo TenzinGyatso, nato nel 1935; è la più alta autorità teocratica del Tibet e per conseguenza la massima autorità spirituale del Buddismo tibetano.

L’ho conosciuto nel 1991 a Comano Terme (Trento) in occasione di un convegno internazionale intitolato ‘Il Silenzio e i suoi Rumori’, al quale avevano partecipato diverse personalità culturali, scientifiche e religiose. Nel corso dell’intervista, per un documentario radiofonico che avrebbe ‘tentato’ di confrontare e coagulare gli aspetti propositivi di religioni diverse (con le voci aggiunte di Padre Ernesto Balducci, del cardinale di Buenos Aires Antonio Quarracinoed altri ancora), il Dalai Lama aveva esordito qualificandosi come semplice ‘monaco buddista’ e tutto il suo percorso – terreno e spirituale –era e sarebbe stato all’insegna di questa sua fortemente reclamata qualifica iniziale. Uomo di fede, di preghiera e d’azione, già nel 1954, in missione a Pechino, tiene testaa Mao Zedong, Deng Xiaoping e Chou En Lai, nel tentativo di riavere la perduta autonomia. Nel 1959 il Dalai Lama lascia il Tibet e da questa data, sino al 2011, ricoprirà anche la carica di Capo del Governo in esilio. La sua fama e la sua presenza nel mondo camminano di pari passo; nel 1987 espone all’ONU un ‘Plan for Tibet’ e nel 1989 gli viene conferito il Premio Nobel per la Pace. Ora vive a Dharamsala, nell’HimachalPradesh indiano. Come tutti i grandi personaggi, è depositario di un’antica saggezza popolare e molte sono le sue riflessioni, i suoi consigli. Quello che mi ha colpito, dell’incontro trentino, non poteva che risultare in sintonia con il tema del convegno: ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta’.

La lingua tibetana riserba altri appellativi per indicare il Dalai Lama: GyalwaRinpoche (prezioso conquistatore); SkuNdun (presenza); YishinNorbu(gemma che esaudisce i desideri). Come uomo in grado di esaudire i desideri e incitare a seguire la dottrina di Budda, il Dalai Lama non manca di ammonire con dolcezza la sua gente, sostenendo che: ‘ci sono solo due giorni all’anno in cui non puoi fare niente: uno si chiama ieri, l’altro si chiama domani; perciò oggi è il giorno giusto per amare, credere, fare e, principalmente, vivere’. Ed è quello che i tibetani in esilio e quelli che sono rimasti – stranieri in patria – dopo la conquista cinese avvenuta tra il 1949 e il 1950, cercano di fare. Il mio Tibet è un Tibet antico che fa ora parte dell’India. A Ovest si chiama Ladakh, un immenso altopiano tra Karakorum e Himalaya, nel quale la tradizione buddista è ancora intatta e vitale; prova ne sia che il Leh Palace del capoluogo di una provincia ora compresa nello stato indiano del Jammu-Kashmir,richiama in maniera sensibile – per la sua configurazione architettonica – il famoso Potala di Lhasa. Chi lo frequenta per pregare non manca di rivolgere il pensiero al grandioso monastero tibetano. L’altro Tibet personale è nell’est indiano (ArunachalPradesh) territorio selvaggio teatro, negli anni Sessanta del secolo scorso, di una cruenta guerra e tuttora reclamato dalla Cina. Le strade d’accesso al monastero di Tawang sono attraversate da festoni di bandierine votive fluttuanti nel vento e processioni di fedeli si inerpicano facendo roteare, con colpi delicati e ripetuti, le thangkas, le ruote della preghiera. Il TawangGompa è il secondo più grande monastero d’Asia, dopo il Potala di Lhasa e il maggiore fra i diciassette Gompas della regione. A Tawang,un grosso borgo incastonato tra il Bhutan e il Tibet cinese, la continuità nella fede buddista è prerogativa dei Monpa, sudditi indiani ma di pura stirpe tibetana. Sono gli stessi che vivononel vicino Bhutan. I monaci del luogo, sulle orme del Dalai Lama, si spostano da un luogo all’altro della regione professando pillole di saggezza: quella che ho ascoltato a Tawang, con la benedizione di un monaco dall’abito color dell’oro, suonava così: ‘nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo’.

Testo del Columnist Federico Formignani , foto di Silvia Antonini|Riproduzione riservata © Latitudeslife.com

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