Un insidioso lichene aveva inginocchiato i giganti di pietra, simbolo indiscusso di Rapa Nui, l’isola di Pasqua. Oggi le grandi teste monolitiche dei Moai risorgono a nuova vita, grazie al restauro dell’Istituto Lorenzo de’ Medici di Firenze e del professor Lorenzo Casamenti. Luca Bracali ne ha documentato l’incredibile lavoro.
Testo di Pino De Ceglie foto di Luca Bracali
Quando i primi colonizzatori salpati dalla Polinesia, dopo alcuni mesi di navigazione, approdarono su una minuscola isola sperduta nel Pacifico meridionale, si trovarono davanti un paradiso. In un’epoca che si tende a collocare tra l’800 e il 1200 d.C. questi migranti, allora come oggi, furono costretti ad abbandonare le loro terre per fuggire dalla fame o dalle guerre – se non da entrambe – per cercare un posto dove garantire un futuro per sé e per i propri figli. Chiamarono quell’isola Te pito o te henua, tradotto, non del tutto correttamente per la verità, “L’ombelico del mondo”. Solo molto più tardi quella terra prenderà il nome Rapa Nui, la “Grande Isola”. Su questo fazzoletto di terra, la cui superficie è circa tre quarti quella dell’Isola d’Elba, tutto quello che si poteva desiderare era disponibile. Una natura generosa offriva acqua, cibo e materiali da costruzione. C’erano infatti foreste con palme giganti e alberi che, inoltre, davano albergo alle molte specie di uccelli che qui vivevano o nidificavano periodicamente. I fondali in prossimità della costa erano ricchi di varietà ittiche e spingendosi al largo era possibile praticare la pesca di delfini e altre specie di grandi dimensioni.
Ma nel giro di pochi secoli, tutto questo svanì. Sparirono le foreste. Terminò il cibo. Scoppiarono sanguinose guerre civili. Si verificarono atti di cannibalismo. E quando, nell’aprile del 1722, l’esploratore olandese Jacob Roggeveen, primo occidentale, mise piede sull’isola, non vide proprio niente che facesse pensare ad un paradiso. Se volle battezzarla Isola di Pasqua fu solo perché venne avvistata il pomeriggio del 5 aprile, domenica di Pasqua. Tuttavia qualcos’altro attirò l’attenzione di Roggeveen: i moai, le gigantesche statue monolitiche – in gran parte abbattute – posizionate lungo tutta la costa. Davanti ad alcune di quelle ancora in piedi vide piccoli fuochi accesi e notò indigeni che vi si raccoglievano con fare devoto, compiendo gesti come di preghiera o di offerta. Le statue avevano sembianze chiaramente antropomorfe, ma lo stile con il quale erano state scolpite era inedito, unico: qualcosa di mai visto prima. Teste enormi e sproporzionate; lunghe orecchie; lineamenti spigolosi, netti; le mani giunte sul ventre, dove il corpo terminava, privo di gambe.
L’esploratore olandese non capì cosa rappresentavano, né riuscì a comunicare con gli indigeni per saperne di più: ma come erano riusciti a realizzare, trasportare e innalzare simili monumenti? Sarebbero serviti utensili, legname, ovvero alberi: ma non vide né foreste, né alberi. E le sue domande restarono per secoli senza risposta. Secoli durante i quali, purtroppo, i sempre più frequenti contatti con gli occidentali non migliorarono affatto le condizioni dell’isola e della popolazione: portarono, al contrario, ulteriori devastazioni, come quelle conseguenti alla trasmissione di nuove malattie, per le quali i nativi non riuscirono a sviluppare difese e che si rivelarono letali. Ma il capitolo più tragico della storia di quegli anni fu quello che vide la razzia di uomini e donne, compiuta per approvvigionare i fiorenti mercati degli schiavi. Il popolo rapanui arrivò così ad un passo dall’estinzione e riuscì a sopravvivere solamente grazie al provvidenziale intervento del Cile che nel 1888 portò l’isola sotto la propria giurisdizione e protezione. Ristabilita finalmente una situazione sociale stabile, iniziarono gli studi per ricostruire le vicende del passato più remoto dell’isola. Si iniziò fin da subito a sospettare un collegamento tra la scomparsa delle foreste e la comparsa dei moai: quindi i Rapanui avevano distrutto le foreste, tagliando tutti gli alberi, per ricavare il legno necessario a fabbricare e trasportare le oltre 1000 statue presenti sull’isola? Questa fu l’ipotesi più accreditata fino a pochi anni fa. Bastino a ricordarlo il romanzo “Rapa Nui” di Leonore Fleischer e l’omonima trasposizione cinematografica prodotta da Kevin Costner nel 1994, per la regia di Kevin Reynolds.
Ma i fatti non andarono così. Un ecosistema come quello dell’Isola di Pasqua, anche se piccolo, è estremamente complesso e sono molti i fattori che possono alterarne il delicato equilibrio. Ma in natura vi sono anche efficaci meccanismi di autodifesa: quasi mai un singolo evento riesce a produrre un disastro ambientale; più spesso sono necessarie di una serie di concause, in concorso tra loro. E oggi sappiamo quante e quali di queste si verificarono sull’Isola di Pasqua. Ecco perché non si può più affermare che furono le sole attività legate alla costruzione dei moai a causare la totale deforestazione.(1) A ulteriore riprova di ciò vi fu un interessante esperimento condotto sull’isola nel 1986 dall’archeologo norvegese Thor Heyerdahl(2) e dall’ingegnere ceco Pavel Pavel (vedi articolo pubblicato su Latitudes) . Poiché la tradizione orale narrava come le statue in realtà giungessero “camminando” alla loro destinazione finale, i due dimostrarono la plausibilità di una simile ipotesi innalzando e facendo avanzare “dondolando”, con l’ausilio di pochi pali e di una serie di funi manovrate da 17 uomini, un moai del peso di circa 10 tonnellate! Ciò dimostrò che non sarebbe stato affatto necessario disboscare l’isola per trasportare le statue dalle cave, situate alle pendici del vulcano Rano Raraku, fino alle loro dimore finali, sulla costa. (3) Ma nonostante ciò i moai restarono i maggiori indiziati della deforestazione e del conseguente catastrofico collasso ambientale e il mistero intorno alla loro origine e al loro significato continuò a crescere, parallelamente alla loro fama. Tanto che diventarono il simbolo stesso dell’Isola di Pasqua. E infatti il turismo, che ne è oggi la principale risorsa, è incentrato pressoché esclusivamente sui moai.
È vero che una volta arrivato poi, il turista scopre e apprezza tanto altro, come l’affascinante bellezza ancestrale, primitiva, dell’isola, fatta di forti contrasti cromatici che si alternano tra il blu profondo dell’oceano, l’azzurro del cielo e le varie tonalità di rosso delle rocce vulcaniche. Ma l’occhio finisce per tornare a posarsi inesorabilmente sui moai, che dominano la scena ovunque si volga lo sguardo, ancora lì, in piedi, testimoni silenziosi e tenaci. Eppure non sono mancati loro nemici di ogni tipo. Le guerre tra i clan videro l’abbattimento di molti d’essi, solo perché appartenenti a tribù avversarie. Poi ci furono gli tsunami, come quello spaventoso del 22 maggio 1960 che spazzò letteralmente via tutti e quindici i moai dell’Ahu Tongariki, trascinandoli per 200 metri verso l’interno come fossero stati semplici fuscelli. Ma da molti anni questi giganti stanno combattono un’ultima, decisiva, battaglia, affrontando gli avversari più formidabili che abbiano mai avuto: i licheni. Lentamente e inesorabilmente le fioriture di questi microscopici organismi hanno infestato le statue e penetrandone facilmente la superficie porosa, crescendo stanno sgretolando, letteralmente sbriciolando le sculture. Per i Rapanui si tratta di una tragedia immane, poiché i moai non sono semplici statue: i nativi li hanno soprannominati Arina Hora, “Volti Viventi”, perché la tradizione orale vuole che custodiscano in sé lo spirito, il mana degli antenati e degli eroi che fecero la storia dell’isola. Da questo è possibile comprenderne finalmente il significato e la funzione: i moai erano una sorta di “santi protettori” che vegliavano sulla pace e la prosperità dell’isola e dei suoi abitanti. Ma in realtà questi giganti rappresentano assai di più.
“Monumento” in molte tra le principali lingue, come l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo o il portoghese, è un termine derivante dal latino monumentum, che a sua volta viene da monēre, ’ricordare’. Il monumento è dunque il ricordo, la memoria, la storia. E poiché i Rapanui, sfortunatamente, non sono stati in grado di tramandare nessuna storia scritta, ecco che salvare i moai non è semplicemente una sfida per proteggere l’economia dell’isola, preservando la principale attrattiva che porta turisti e risorse sull’isola: no! Vuol dire, piuttosto, salvare tutto il passato nell’unica, immensa, memoria storica che resta di una straordinaria civiltà. A questo pericoloso rischio si è trovato finalmente rimedio nel 2010, grazie al contributo del Dipartimento di Restauro dell’Istituto Lorenzo de’ Medici di Firenze. Il professor Lorenzo Casamenti, superando la diffidenza iniziale delle autorità locali, maturata in seguito a precedenti esperienze negative, ne ha riscosso infine la fiducia e il sostegno e, dopo una serie di esami di laboratorio eseguiti in Italia su campioni di roccia provenienti dall’isola, ha sperimentato con incredibile successo una tecnica di restauro che nel 2012 ha portato al recupero del primo moai. In questa avventura Casamenti è stato accompagnato da alcuni studenti dell’istituto fiorentino e dal fotografo Luca Bracali, che ha realizzato le immagini di questo esclusivo e straordinario reportage, con il quale ci racconta non solo del restauro, ma anche di tutta la bellezza dell’isola e del misterioso fascino dei moai. Tuttavia l’aspetto più etico di questa intera operazione, pensata, promossa e condotta dalla Lorenzo de’ Medici su invito del Governo Cileno, non consiste soltanto nell’aver fatto tutto a titolo gratuito: si è voluto pazientemente istruire e addestrare un team locale trasferendo tutte le conoscenze teoriche e pratiche che potranno permettere proprio ai Rapanui di salvare essi stessi, da soli, questo che dal 1995, sotto l’egida dell’UNESCO, è diventato Storia, Memoria e Patrimonio dell’intera Umanità.
Testo di Pino De Ceglie foto di Luca Bracali
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Note
(1) Vedi: Rapa Nui – Genesi di un restauro, di L. Bracali e G. De Ceglie – Ed. Lorenzo de’ Medici Press, pagg. 32-35
(2) vedi il n.77 di Latitudes (dicembre 2014) – L’uomo del Kon-Tiki, pagg.19-64
(3) Vedi: Rapa Nui: L’uomo che fece camminare le statue di P. Pavel – Ed. Bibliotheka
Info utili
Informazioni: Ambasciata del Cile, Via Po 23, Roma, tel. 06.844091, Consolato del Cile, Via San Pietro All’Orto 11, Milano, tel. 02.76016070,. ProCile – Milano, tel. 02.864093, prochile@tin.it Ufficio commerciale del Cile, passaggio degli Osii 2, Milano www.chile.travel
Come arrivare: Iberia vola a Santiago via Madrid . Poi la LanChile Airlines collega l’aeroporto di Mataveri, molto vicino all’unico villaggio di Hanga Roa, con Santiago (5h di volo) quattro volte alla settimana e con Tahiti (6h di volo) due volte alla settimana per tutto l’anno. www.lan.com
Quando andare: Il clima è temperato e raramente le temperature superano i 30 gradi. L’estate, che in questo emisfero va da dicembre a marzo, è comunque il periodo migliore per visitare l’isola
Lingua: Spagnolo
Religione: Cristianesimo
Documenti: Passaporto valido, non è necessario il visto
Vaccini: Nessuna vaccinazione richiesta
Fuso orario: Il Cile è 5 ore indietro rispetto all’Italia, l’isola di Pasqua 7 ore indietro
Valuta: Il pesos, ma accettano anche euro. Sull’isola l’uso della carta di credito è ridotto, meglio avere contanti
Elettricità: 220 V
Telefono: Prefisso dall’Italia, 0056. Discreta la copertura cellulare. L’isola dispone di collegamenti internet.
Abbigliamento: Comodo e informale, pile e giacca vento per la sera e le giornate più fresche.
Link utili:
www.thisischile.cl , www.chile.travel
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