
Viene naturale, ascoltando o pronunciando la parola peperone, sentirsi in bocca un’immediata sensazione di infuocato che, veloce e avvolgente, ci invade la cavità orale; qualcosa di piccante che immediatamente trasporta il pensiero a un’altra parola dalle pressoché identiche proprietà: il pepe. Ma cosa possiede di speciale questo ortaggio che tutti conosciamo e gustiamo in mille forme diverse? È la sua storia, indissolubilmente legata a quella del pepe (anche semanticamente) ad attrarci; è la sua consolidata presenza nelle cucine del mondo a stimolare il desiderio di saperne qualcosa di più.
Quindi, come si conviene nelle rievocazioni “serie”, cominciamo col dire che il peperone è una pianta della famiglia delle solanacee; famiglia che – incredibile ma vero – raggruppa in sé molte specie commestibili (anche patate, melanzane, pomodori) ed altre velenose. Queste ultime contengono alcaloidi psicoattivi, compreso quello tossico chiamato solanina che è presente nei frutti ancora acerbi e non per fortuna in quelli maturi.
La solanina, con la maturazione dell’ortaggio, scompare del tutto o si trasforma in sostanze innocue, addirittura salutari per l’organismo. L’origine geografica del peperone è l’America del Sud; è arrivato in Europa – unitamente ad altri frutti all’epoca considerati esotici – nel XVI secolo, dopo che i grandi navigatori (Colombo, Vasco da Gama ecc.) avevano aperto nuove vie marittime nel tentativo di spezzare il monopolio delle repubbliche marinare (esploratori portoghesi, mercanti veneziani) nel reperimento e nello smercio del pepe, il cui nome è intimamente legato a quello cel peperone.
Cominciamo quindi dal pepe, che rappresenta senza dubbio una vecchia conoscenza, rispetto al peperone. La parola italiana, al pari di quella inglese (pepper), deriva dal latino piper, a sua volta collegata al greco péperi e al sanscrito pippali. In India il pepe è conosciuto addirittura dal 2000 a.C.; da questo paese asiatico si è diffuso nell’intero Oriente e successivamente nel bacino del Mediterraneo. Prodotto alimentare e insieme medicamentoso, subito di grande consumo. Lo hanno capito al volo i Romani già dalla conquista dell’Egitto (30 a.C.) arrivando a spedire qualcosa come 100/120 navi all’anno verso l’India, attraverso il Mar Rosso e quello Arabico, con partenza dal porto egiziano di Alessandria. I carichi navali? Tonnellate di piper nigrum e piper longum. Ancora nel Medioevo il pepe era considerato prezioso e accessibile solo a chi avesse notevoli disponibilità di denaro; tant’è che veniva chiamato “oro nero”. Questa preziosità ci conduce alla fine al peperone. Gli indigeni del sud America lo chiamavano ají o chili. Colombo, che aveva raggiunto l’America “buscando el Levante por el Poniente” (cercando l’Oriente puntando a Occidente), non era affatto uno sprovveduto e aveva capito subito che il peperone era cosa diversa dal pepe, malgrado la comune piccantezza. Comunque, forse per pigrizia mentale o per consolarsi d’essere arrivati nel posto sbagliato (non cioè in Oriente!) gli spagnoli hanno dato al capsicum annuum (il peperone) lo stesso nome che usavano per il pepe (pimienta), termine che ha finito per estendersi ad altre lingue del mondo.
In Italia il peperone è stato chiamato inizialmente pepe d’India (la stessa “India” dei porcellini e dei fichi); nel XVIII secolo si è usata la parola peperone e nella seconda metà dell’Ottocento è arrivato il peperoncino a distinguere gli ortaggi piccanti da quelli che lo erano poco o niente. Oggi il peperone è coltivato e mangiato quasi dappertutto, nel mondo.
Si mangia crudo (insalate, pinzimonio, con la bagna cauda piemontese); può anche essere arrostito sulla brace, impiegato nella peperonata, nella caponata, conservato sott’olio o sottaceto. Finiamo con una curiosità: come si fa a determinare la piccantezza di un peperoncino? Esiste la Scala di Scoville, detta SHU. Scoville era un botanico e la scala graduata prende il nome dal suo (Scoville Heat Units). La scala misura la quantità di capsaicina contenuta nei peperoncini.
Tra le varietà mondiali di questo effervescente ortaggio, alcuni sono accettabili e normalmente piccanti; altri sono “infernali”! Tra i più morbidi, ecco l’Ancho Mulato del Messico, di 5.000 SHU, molto profumato e poco piccante. Quello italiano detto Naso di Pinocchio, ha 10.000 SHU ed è delicato, dolce, moderatamente piccante, apprezzato anche negli USA. Con gli 850.000 SHU del Pot Madballz e i 950.000 SHU del Naga Morich di origine indiana, (tra i più piccanti del mondo) si rimane invece letteralmente a bocca aperta e incendiata!
Libertas Dicendi n°229 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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