
Mentre, come tutti, guardo in tivù le immagini di Venezia sottacqua, mi sento le ossa umide e percepisco brividi di freddo che percorrono – più che il corpo – l’intero mio essere: intimo e periferico. Esagerazioni di chi è seduto e al caldo? No. Moti compassionevoli dell’anima e atteggiamento da malade imaginaire per quanto riguarda il corpo? Nemmeno. Il fatto concreto che peggiora percezioni e sensazioni, è dato dalla inequivocabile concretezza delle immagini. Quell’acqua che tante volte abbiamo ammirato – azzurra e stesa come un elegante velo dalle magiche trasparenze sulla città dei quadri del Canaletto – ora appare tra il grigio e il verdastro: insinuante, subdola, avvolgente; monta impercettibilmente ora dopo ora e si appropria, insieme ai beni e alle fatiche dei veneziani, dei loro spiriti sempre più fiaccati, delusi, mortificati, traditi. Osservo e mi chiedo, da semplice innamorato di Venezia (innamorato, non infatuato): perché l’essere umano fatica così tanto a rendersi conto di ciò che è bello, unico e che ha avuto in dono senza alcun merito specifico? Perché si mostra altalenante tra afflizione e colpevolezza solo per lo spazio temporale in cui avviene il peggio, per ritornare subito dopo nella cellula isolata del proprio egoismo e indifferenza, con il cessato allarme? Non so darmi una risposta. Quello che chiedo a me stesso in questo momento di doloroso limbo mentale è di rivedere una Venezia già vista, ma sempre diversa; una Venezia viva che appartiene alla mia memoria personale ma è anche memoria collettiva dell’umanità.

I milioni di uomini e donne che hanno visitato negli anni questa incredibile città, ne conservano specifici ricordi visivi ed emotivi. Questo è esercizio che riesce bene anche a me; possiedo un imponente archivio mentale dei miei incontri con la Serenissima e le visioni sono entrate a far parte di me giusto all’epoca in cui gli incontri hanno avuto luogo, senza che fosse necessario l’apporto deteriorabile di foto, scritti, voci, rumori. Per esempio: rileggo quello che ha scritto Friedrich Nietzsche nel suo “Ecce homo” (se dovessi cercare una parola che sostituisce “musica” potrei pensare soltanto a Venezia) e immediatamente decido che il mio termine sostitutivo potrebbe essere “luminosità” o meglio ancora “preziosità”; oppure riascolto i motivi cantilenanti del gondoliere veneziano (notte de luna, notte piena de stele, vado in laguna e vogo; e vogio cantar) e mi immedesimo nel dolore fisico dei gondolieri che hanno assistito impotenti al disintegro dei loro bellissimi strumenti di lavoro. Anno Domini 2019 come il 1966, l’anno dell’altra “acqua granda” invadente e indesiderata; solo che allora ero a Firenze ad asciugare con la carta assorbente libri e documenti dalla melma dell’Arno. Poi è tornato il sole, a Firenze come a Venezia. E negli anni ho accumulato nuovi incontri con la città della Laguna, ho arricchito il mio personale archivio di molteplici, indimenticabili sensazioni.

Venezia vista con la pioggia: una pioggia sottile e rinfrescante, quasi un peplo trasparente che avvolgeva case e palazzi. Venezia con la nebbia: dio, non andrà a sbattere contro il pilone, il vaporetto? Venezia con la neve: tutto bianco, merlettato e sospeso, col grigio piombo del Canal Grande. Venezia trionfante di sole e di colori: ed io (privilegiato) sul motoscafo della giuria della regata storica delle Repubbliche Marinare; lei è milanese, per chi tifa? naturalmente per la barca della Serenissima, rivale tosta la superba Genova e di contorno Pisa oramai senza mare e la tenera Amalfi che nella gara ha perso la bussola, arrivando ultima. Venezia antica e silenziosa: via per lunghi attimi dal centro trafficato da turisti e piccioni (ma che emozione sempre nuova metter piede in San Marco!) per assaporare piazzette e vicoli e ponticelli e rii che odorano di mare fermo e di umanità. Venezia della Giudecca, con la preziosa punta della Salute e gli esclusivi orti del Cipriani. Venezia del Casinò d’inverno, in città: una chiassosa roulette in compagnia di amici e la pallina che si ferma sul 27; cena sontuosa e bevande in sintonia, per tutti. Venezia delle preziosità, come il museo ebraico in Campo di Ghetto Nuovo, che in realtà è il più antico della città. Venezia dei sospiri, infine. Non quelli del celebre ponte, ma quelli spesi con lentezza e consapevolezza, posando lo sguardo su ogni possibile quadro di questa meraviglia unica e irripetibile, ricavandone benessere fisico, completezza spirituale; quasi un insperato nirvana.
Libertas Dicendi n° 236 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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