Debbo confessare che Libertas Dicendi è una rubrica un po’ ribelle. Parla di quello che vuole, inseguendo non tanto le mode del momento, quanto i sentori, gli sbandamenti, le discrasie dell’umorale vivere moderno, tuffandosi con voluttà (quando ne vale la pena) nelle meraviglie del passato. E il passato di questa settimana è concentrato nella magnifica Parma e nella bellissima mostra (Mode nel mondo) curata da padre Alfredo Turco, Maurizio Salvarani, Chiara Allegri e Laura Ferrari, allestita nel Museo d’Arte Cinese ed Etnografico. L’esposizione, nella capitale italiana 2020 della Cultura, dura un anno intero; c’è quindi tempo a sufficienza per visitare una raccolta di abiti, ornamenti ed accessori che tracciano in maniera significativa la vita e l’evoluzione storica di popolazioni asiatiche, africane e dell’Amazzonia brasiliana. Sono oggetti raccolti dai Missionari Saveriani sin dall’inizio del secolo scorso nei lontani Paesi nei quali veniva propagata la fede cristiana; e sono oggetti (sostiene padre Alfredo Turco) che illustrano come meglio non si potrebbe la grande missione di interculturalità che il museo missionario di Parma è chiamato ad intraprendere. Dagli abiti, dagli accessori, dagli ornamenti esposti, non è difficile individuare l’etnia, lo stato sociale o addirittura la tribù di appartenenza delle persone che con quegli oggetti (quasi divise e oggetti distintivi) hanno srotolato la loro esistenza.La sintesi di tutto ciò arriva con le parole di padre Rosario Giannatasio, Superiore Generale per l’Italia dei Missionari Saveriani: “l’abbigliamento è una vera e propria forma di comunicazione codificata e facilmente interpretabile a livello sociale”.Niente di più vero, a giudicare dalla bellezza e dalla preziosità degli abiti esposti a Parma.
L’origine e la trasformazione degli abiti femminili (qipao per la Cina e kimono per il Giappone) ha una lunga storia. Quello cinese è molto diffuso già all’epoca della dinastia Qing, proveniente dalla Manciuria e dominante fra il 1644 e il 1911; l’abito, per legge, viene imposto a tutte le donne e si presenta largo e diritto, in modo da coprire interamente le fattezze femminili. Divenuto l’abito nazionale cinese, subisce modifiche e negli anni Venti del secolo scorso, a Shanghai, cambia anche il nome: changsghan, in cinese mandarino. L’abito, generalmente di seta, si presenta in un unico pezzo molto aderente, a maniche lunghe o corte e la parte terminale mostra profondi spacchi laterali. Più complessa è l’origine del kimono giapponese. La forma iniziale deriva dall’abito tradizionale della dinastia cinese Han (206 a.C.-220 d.C.) che gli dà anche il nome: hanfu. Divenuto popolare in Giappone attorno all’ottavo secolo, subisce modifiche che lo avvicinano al kimono tradizionale. Tra il Seicento e l’Ottocento (periodo Edo o Tokugawa) le maniche si allungano, specie per le donne non sposate; la cintura diviene più larga, con vari tipi di nodi e lacciuoli. Da allora la forma base del kimono maschile e femminile è rimasta pressoché immutata.Colori scuri (nero, blu,verde e raramente il marrone) per gli uomini; per le donne, un kimono con una larga gonna-pantalone a pieghe (hakama) e una giacca da indossare sopra il kimono (haori).
Fra gli abiti cinesi in esposizione a Parma, tutti gradevolmente belli, spiccano il longpao, un elegantissimo abito di corte di epoca Qing,un abito liturgico taoista, con ricami in filo d’oro e filati policromi, quindi un abito di Corte femminile di lino con trama e ricami in seta, d’epoca Qianlong. Sono poi esposti scialli della cultura batak dell’isola di Sumatra e abiti maschili tradizionali dell’Indonesia, un favoloso burqa del Bangladesh: abito tradizionale delle donne musulmane, in cotone azzurro, costituito da una tunica che copre completamente testa e volto e da una gonna. Altri oggetti in mostra: zucchetti, scarpe e babbucce tribali, dal Sudan; tessuti cerimoniali in seta della tribù Ashant dal Ghana; un abito tradizionale composto di tunica e pantaloni dal Burkina Faso; collane kweymakjella e cavigliere di alluminio decorate a testa di uccello, dal Camerun. Dall’Amazzonia, una sorprendente nota di colore dal corredo decorativo del popolo Kayapò: un insieme di piume e tessuti vegetali. Completano l’esposizione di Parma altri oggetti ancora: calzature femminili tipiche del grande impero: scarpette con tacco a zoccolo, oltre all’ornamento nuziale: collare in tubolare con l’effigie di due draghi. Quindi terrecotte, porcellane, paramenti, statue, dipinti, fotografie, oggettistica varia e monete rare provenienti dall’Estremo Oriente. Tutto davvero bello, interessante e istruttivo.
Libertas Dicendi n° 248 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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