
Mi considero un vero campione del #iorestoacasa e della resilienza positiva. L’ascensore è il mezzo di trasporto che mi scarrozza dalla luminosità del terzo piano e del terrazzo fiorito, al primo piano inferiore dello studio nel quale leggo, scrivo e seleziono raccolte speciali, riviste e libri destinati alla vendita o ai regali agli amici, quando non sarò più operativo. Il contatto vitale che per fortuna funziona alla grande è quello pressoché esclusivo con Cate: mangiare e dormire sono la routine fissa delle nostre giornate, mentre il resto è reso vivo e interessante dallo scambio di vedute che riguardano i personali interessi e quelli che il mondo ci bombarda attraverso tivù, telefono, cellulare, email, social. Giornalmente, poi, c’è lo spettacolo divertente di una famigliola di merli sul terrazzo: becchettano tutti i semi seminati e fanno il bagno nella piccola vasca; fra un po’ torneranno anche le api a gironzolare attorno ai fiori del rosmarino e della lavanda. Sebbene sia più recluso di quanto lo sia Cate (e da diverso tempo) considero questa frazione di vita un intervallo non del tutto negativo. Mi scopro a pensare e valutare un’infinita gamma di situazioni che fanno parte del mio vivere e, molto probabilmente – per temi e obiettivi differenti – di quelle di milioni di individui. Il bello della faccenda è che i miei sono pensieri pacati, positivi, oserei dire saggi. Se il guaio coronavirus ha un merito, almeno per quanto mi riguarda, è quello di aver contribuito a fissare il giusto telaio per contenere i numerosi disegni della mia mente. Ecco perché sono un fautore del #iorestoacasa. Che è anche una forma di rispetto per chi ci cura.

In questi ultimi giorni le cronache traboccano di episodi di insofferenza alla clausura imposta dalle autorità. Tra i furbetti del decreto, c’è chi è stato beccato dai controllori e ha inventato le scuse più assurde. Dalle parti di Zocca (Modena) sono arrivate persone che volevano vedere la casa di Vasco Rossi. A Treviglio c’è chi ha raccolto in casa numerosi amici per bere e fare baldoria, in felice vicinanza d’intenti. Un giovanotto della provincia di Sondrio è andato a Dongo, sul lago di Como, a prelevare la fidanzata per portarla di nuovo in Valtellina; gli è andata male solo perché ha decantato le proprie gesta su Facebook! Nel veronese c’era troppa gente attorno alla fossa durante una sepoltura al cimitero; dopo aver allontanate le persone, la Polizia ha denunciato le pompe funebri. L’ultima perla. Due quarantenni sono stati fermati all’alba in una piazza di Torino; la loro giustificazione: siamo usciti per comprare droga; se non altro, sinceri. Per tutti: furbi e bravi, sclerati e calmi, agitati e posati, si impone quindi l’esigenza della resilienza. Meglio se attiva. Resilienza è diventata una buzzword (parola d’ordine): magica, versatile, evocativa e chi la pronuncia fa una gran figura perché la parola sprigiona forza e profondità.
George Eman Vaillant, psichiatra americano, afferma che la resilienza non è una condizione, ma un processo: lo si costruisce lottando. Una persona resiliente è di fatto in grado di affrontare gli eventi traumatici o disastrosi (come quello che stiamo vivendo) in modo positivo; l’obiettivo è quello di riappropriarsi della propria esistenza e non permettere al dolore o all’angoscia di annientarci; se poi applichiamo il termine resilienza a un’intera comunità, questa sarà in grado di affrontare in modo positivo eventi traumatici o catastrofi naturali attraverso appropriate linee guida. Leggo anche qualcosa che mi riguarda e mi dà speranza: un pensionato resiliente è con tutta probabilità sveglio, vissuto; uno che attende sornione (come i gatti) per poi contrattaccare. Senza accarezzare progetti bellici, debbo dire che mi riconosco nelle caratteristiche dell’anziano descritto. Ma si, dai! Tutto sommato mi ci vedo nella veste del protrettico erga omnes; uno che dirige, eccita, esorta e stimola a proseguire, in assoluta resilienza, la lotta contro il subdolo e malefico coronavirus. In fondo, basta poco per avere successo. Ce lo insegna il filosfo e poeta USA Henry David Thoreau, vissuto nell’Ottocento: “un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno”. Facciamo a meno del calcio, del teatro, dei concerti di musica classica e rock; dobbiamo rinunciare alle gite in aereo, auto, treno, alle cene con gli amici e alle discussioni al bar; ma non possiamo e non vogliamo proprio ci venga a mancare la cosa più importante: la salute.
Libertas Dicendi n° 253 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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