
Siamo in piena Fase-2. È cosa buona? Sì, ma occhio ai colpi di coda, occhio ai moderni untori parolai; quindi: restiamo allerta. Questo significa che i lombardi – ancora sotto tutela perché qui il coronavirus è stato più cattivo che altrove – possono muoversi un po’ di più rispetto al tempo del “io resto a casa”, imperativo categorico in parte consigliato, in parte imposto. Soprattutto adesso, in previsione di un inizio di giugno che con tutta probabilità vedrà il generale “rompete le righe”, non è male guardare a ritroso negli anni e scivolare in compagnia di Alessandro Manzoni ancora più indietro, sino all’anno 1630: l’anno della peste. Questo terribile flagello non era nuovo per Milano; uno devastante si era già verificato in città nel 1576, ma quello del 1630 sarebbe passato alla storia per un insieme di buoni motivi. Per i personaggi dell’epoca coinvolti, anzitutto: il governatore Ambrogio Spinola, nominato verso la fine del 1629 dal re di Spagna; il cardinale Federico Borromeo; Alessandro Tadino, membro del Tribunale di Sanità; Lodovico Settala, famosissimo medico; padre Felice Casati, frate cappuccino, direttore del Lazzaretto, dove venivano ricoverati gli appestati raccolti nelle strade dai monatti. Cessata la pestilenza, nei primi mesi del 1631, lo storico Giuseppe Ripamonti indicherà in 140 mila i morti milanesi; altre cronache faranno salire questa cifra sino a 165 mila e oltre, su un totale di circa 250 mila abitanti (Milano era già una grande città). Fra le storie minori e dolorose della pandemia, emerge, più di altre, quella del proprietario di una barbieria del tempo: Giangiacomo Mora, reso celebre dai Promessi Sposi del Manzoni e dalla sua Storia della Colonna Infame.

Al 25 ottobre del 1629, raccontano le cronache, risale la morte del “paziente uno” della peste: tale Pietro Antonio Lovato, abitante in Porta Orientale, che aveva barattato o acquistato da soldati Lanzichenecchi diversi abiti infettati dai germi della peste. Lodovico Settala così descrive i risultati dell’esame post mortem cui è stato sottoposto il Lovato: “un flegnione (una specie di bubbone, n.d.r.) nel brazzo sinistro, et principio di infiammatione sotto all’assela, pure sinistra”. Con la primavera dell’anno dopo, i morti aumentano in maniera sensibile e a maggio, col primo vero caldo, il Lazzaretto non riesce ad ospitarne di nuovi. Il cardinale Federico chiama a raccolta il popolo per pregare e organizza un’affollatissima processione fra le varie Porte della città; evento questo che aumenta la virulenza del male nelle settimane che seguono; i morti salgono a 150-200 al giorno. La situazione diviene drammatica: case abbandonate e saccheggiate, infermi non più curati e lasciati in ogni dove, carri colmi di cadaveri che vengono ammassati in fosse comuni e bruciati; fisici e protofisici (medici e aiutanti) incapaci di dare risposte se non ricorrendo ai soliti salassi. Come non bastasse, per la città serpeggia la voce che la peste sia propagata dagli untori, gente che “…imbratta muri, porte, angoli di strade, catenacci di portoni con sostanze appiccicose di colore giallo”. In questo clima di terribile angoscia un avvenimento scuote la vita dei milanesi: viene arrestato tale Guglielmo Piazza, Commissario di Sanità.

Il Commissario protesta la propria innocenza, ma sotto i tormenti della tortura finisce per confessare di aver ricevuto del veleno da un barbiere anche lui del Ticinese, di cui conosceva solo il nome di battesimo: Giovanni Giacomo. Facile risalire alla bottega di Giangiacomo Mora, situata tra la Vetra dei Cittadini e corso di Porta Ticinese. Come tutti i barbieri dell’epoca, il Mora si occupava anche di bassa chirurgia (piccoli interventi, preparazione di sciroppi e pomate); in più, aveva ideato un intruglio specifico per combattere la peste. Come Guglielmo Piazza, anche il Mora viene interrogato, ripetutamente torturato. Sperando d’aver salva la vita, alla fine confessa le colpe che non aveva e arriva a dire d’aver più volte preparato un unguento pestifero, ricavato utilizzando la bava raccolta dai morti di peste! Con la confessione, il barbiere firma la sua condanna a morte. È la fine del mese di giungo dell’anno 1630.

Nel luogo del martirio viene eretta una colonna, poi abbattuta nel 1778. Ora una targa in latino ricorda l’avvenimento che Alessandro Manzoni ha così commentato, nella sua Storia della Colonna Infame: “…è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere. E non è una scusa ma una colpa”. Considerazione, amaro giudizio, che potremmo tranquillamente adattare alla stagione che stiamo vivendo.
Libertas Dicendi n° 262 del ‘Columnist’ Federico Formignani |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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