Con i suoi 8 609,02 metri il Karakorum 2 è il secondo colosso più alto della Terra. Tecnicamente molto più difficile degli altri tredici ottomila, sicuramente il più insidioso: la cima non è mai stata raggiunta in inverno. Tamara Lunger, alpinista altoatesina trentaquattrenne, tenterà l’impresa nella stagione 2020-2021.

“L’alpinismo è un gioco, ma non uno scherzo” scriveva Roberto Iannilli, alpinista italiano morto nel 2016, sottintendendo contemporaneamente la bellezza di una vita vissuta ad alta quota e il pericolo dietro l’angolo: in montagna esiste sempre il rischio che qualcosa non vada come previsto.
I quattordici ottomila in particolare sembrano essere un cimitero di tentativi. O di errori. Oppure, il più delle volte, di incoscienza.
La verità è che dietro un’ascesa sono sempre presenti le componenti psicologiche di chi scala, l’allenamento, i pericoli oggettivi – dunque legati all’ambiente circostante, al meteo, a variabili imprevedibili – e il K2 è un catalizzatore di difficoltà unico al mondo.
Molti hanno fallito nel tentativo di conquistarne la vetta, alcuni sono morti, altri hanno compiuto l’impresa durante la bella stagione: nessuno è mai riuscito in inverno.
Tamara Lunger, alpinista altoatesina di trentaquattro anni con alle spalle una vasta esperienza in Himalaya, ha annunciato personalmente che tenterà l’impresa – come lei un’altra sessantina di alpinisti nell’arco della stagione 2020-2021, numero decisamente cospicuo per una simile spedizione –. Se dovesse riuscirvi, non cambierebbe solo la storia del K2: muterebbe la percezione del limite umano.
Primi passi

Il talento di Tamara venne notato per la prima volta dalla sua insegnante di educazione fisica delle medie, moglie di Simone Moro – alpinista bergamasco di punta, detiene il record di ascensioni in prima invernale sugli ottomila –.
Furono anni di scoperta e di apprendimento per una ragazza che mostrava già tutte le qualità dell’alpinista che sarebbe diventata: tenacia, determinazione, resistenza alla fatica. Una vera e propria forza della natura.
Con Simone Moro sviluppò nel tempo un forte legame: prima quello tra un’osservatrice curiosa e il suo modello, poi tra maestro e allieva, infine tra due compagni di cordata, due amici.
Nanga Parbat 2016

Quattro anni fa ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Tamara: il tentativo, fallito, di ascendere il Nanga Parbat. Lei stessa ha raccontato la spedizione nel libro “Io, gli ottomila e la felicità”, soffermandosi ampiamente sul momento cruciale, quello della rinuncia alla vetta.
A settanta metri dalla cima, dopo una giornata di malore, di fatica, di dolore fin nelle ossa per il freddo esagerato e le difficoltà con l’acclimatamento… raccoglie le poche energie che le rimangono e sceglie di tornare indietro. Scrive:
“Mi sento così vulnerabile, così spaventata. Riesco ad arrivare sotto la vetta, guardo sopra la mia testa e continuo a pregare, in silenzio. […] Chissà cosa staranno pensando di me al campo base. Si capisce che sono indietro, si intuisce quanto sono lenta oggi?
[…] Qui sotto ci siamo solo io e una frase che inizia a rimbombarmi in testa: “Se sali in cima, non torni più a casa”.
[…] La sfida non finisce con la rinuncia alla vetta, la prova che mi aspetta è ancora più difficile, è riuscire a scendere. Da sola.”
Il suo timore principale, aggiunge, era quello di rallentare gli altri o metterli in pericolo: cos’è l’altruismo, se non rinunciare a un sogno per salvare le vite dei compagni? Cos’è il coraggio, se non comprendere la misura del limite, piuttosto che superarlo senza interrogarsi sulle conseguenze?
Il fascino del pionierismo

L’alpinismo vero è questo. Non la gloria, non l’impresa per il gusto del successo: tutto ciò è contingente.
Laddove la corda unisce entrano in gioco meccaniche che prescindono dal singolo e che rendono il limite un soggetto da conoscere, dal quale imparare una lezione. Per poi superarlo, ma solo quando le condizioni lo permettono.
Scalare il K2 in invernale, un colosso inviolato, sogno e mito di molti, sarebbe sicuramente un’impresa secolare dal punto di vista alpinistico. Inoltre, l’idea che a farlo per la prima volta possa essere una donna – per di più italiana –, in un mondo decisamente a maggioranza maschile riempie d’orgoglio.
Il pionierismo ha un fascino che ammalia l’uomo da sempre per natura: fare qualcosa di grande, di difficile, farlo per primi è invitante. Siamo assetati di successo e lo pretendiamo a costo di superare i nostri limiti nel momento sbagliato: peccare di ὕβϱις– “tracotanza” per gli antichi greci – portava grandi sventure nella classicità e oggi, ad alta quota, non cambia poi molto l’effetto.
La linea tra la vita e la morte su un ottomila è sottile… sfidare il limite è da incoscienti e da folli. Studiarlo è saggezza. Superarlo è per pochi… pochissimi saggi.
Tamara appartiene a questa categoria e l’ha dimostrato sul Nanga.
Abbiamo bisogno di modelli

Forse in passato la storia dell’alpinismo ha spinto per ottenere grandi imprese da grandi personalità e in parte sarà sempre così. Su molti piani il cambiamento ha rinnovato nel tempo diversi obiettivi, così come modi di vivere la montagna consapevolmente e sotto una luce diversa dall’ossessione senza scrupoli.
C’è un’ulteriore chiave di lettura da non sottovalutare: dopo decenni di decadenza, dopo decantazioni di crisi dei valori che spesso lasciano il tempo che trovano… abbiamo ancora bisogno di modelli.
Viviamo una contemporaneità insipida e a tratti amara, legata al mito dell’apparenza come mai prima d’ora, abbiamo perso l’avventura, la scoperta: un viaggio non è più esplorazione ma vacanza, nella peggiore delle ipotesi è una fuga. Ci siamo annichiliti, aspirando a diventare immensi con le dita sulla tastiera e senza mettere il naso oltre l’uscio. Senza faticare, senza mai perdere.
Tamara oggi è una ricchezza per l’alpinismo e per il mondo in generale perché ci ricorda quanto sia terapeutica la competizione con sé stessi e quanto sia necessario, a volte, dire di no: se dovesse compiere l’impresa durante questo inverno, ci farebbe sognare.
Nella speranza che dimostri ancora una volta la testa e il cuore che l’hanno sostenuta sul Nanga, se non dovesse riuscire darebbe speranza per una nuova stagione, una nuova impresa, una nuova importante lezione per crescere: questo è il viaggio, fuori ma soprattutto dentro sé stessi.
Testo di Giulia Colangeli |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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