Umbria, segreti e cantine da (ri) scoprire

C’è un filo appena celato che lega il vino e la sua produzione a tanti dei luoghi più suggestivi e interessanti dell’Umbria. Ecco perché parlare di enoturismo nella terra di Francesco è per lo meno riduttivo. Andar per cantine significa intraprendere un vero viaggio, anche se soltanto si tratta di un pezzetto del cuore verde d’Italia. Intorno alla magica Orvieto si svolge il nostro, carico di emozioni.

La magnifica facciata del Duomo di Orvieto [ph.Eugenio Bersani]

L’Umbria è un susseguirsi di vallate, catene montuose, altopiani e, marginalmente, pianure. Un limite agli spostamenti rapidi. E poi quasi ad ogni chilometro c’è qualcosa da vedere o sperimentare, e tra curve, piccoli borghi, discese ardite e, ovviamente, risalite, il tempo si dilata. Quindi pur svolgendosi in un’area non vasta, il nostro viaggio alla scoperta di cantine e bellezze richiede, al meglio della soddisfazione, possibilmente un week end lungo.

Un gioiello sulla rupe di tufo

A vederla da lontano pare quasi un miraggio, appollaiata sopra una piattaforma rocciosa. Una sorta di Acropoli medievale, con il profilo degli antichi edifici che si staglia nel cielo. Orvieto ci seguirà con lo sguardo benevolo di un’amica preziosa in diverse tappe fra le aziende vitivinicole della zona. E allora meglio renderle subito omaggio, e non rimandare il piacere di un incontro pieno di meraviglie. Un assoluto capolavoro architettonico è il Pozzo di San Patrizio.

Una doppia rampa elicoidale di concezione leonardesca percorre la distanza di 54 metri, consentendo di scendere sottoterra e risalire senza incontrare chi viene in senso opposto. Costruito tra il 1527 e il 1537 per volere di papa Clemente VII, il pozzo è completamente scavato nel tufo, con forma cilindrica e un raggio di 13 metri.

Dalle profondità alla volta celeste il passo è breve. La Torre del Moro, anche detta “l’orologio degli orvietani”, marca un punto centrale della città antica. Si può salire fino a 50 metri d’altezza. La fatica dell’ascesa sarà ampiamente ricompensata dalla vista, che spazia a 360° sull’intorno, e al tramonto può suscitare lirismi anche negli animi più coriacei. Ma è meglio tenere d’acconto il grosso dell’emotività, che ci tornerà utile soprattutto una volta raggiunto il Duomo.

Il Duomo è dedicato alla Madonna, della cui vita vengono narrati diversi episodi [ph. Gianfranco Podestà]

Sarebbe sufficiente la facciata a giustificare il viaggio a Orvieto. La ricchezza e la complessità dell’opera richiedono una sosta prolungata sulla piazza, meglio se con l’aiuto di una guida. Fra i diversi stili che caratterizzano l’edificio (il Romanico è uno dei principali), la facciata esprime la solennità del Gotico, ma contemporaneamente è ricchissima di raffigurazioni.

I mosaici dorati e policromi narrano episodi della vita della Vergine, a cui la cattedrale fu dedicata. Il rosone è formato da un doppio giro di colonnine con archi intrecciati, con al centro il volto di Cristo Redentore attorniato da 4 mosaici raffiguranti i dottori della chiesa. Le 4 guglie hanno alla base altrettanti grandi bassorilievi in marmo. Nel quarto viene rappresentato il Giudizio Universale.

Maestri della grande arte rinascimentale

Duomo di Orvieto. Gli affreschi di Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio, che impressionarono e ispirarono Michelangelo [ph.Eugenio Bersani]

Lo stesso tema trova ampio spazio all’interno del Duomo, in particolare con gli affreschi di Luca Signorelli che subentrò al Beato Angelico nella Cappella di San Brizio, un tripudio di scene apocalittiche fino alla resurrezione della carne. Una forza espressiva capace di colpire e ispirare Michelangelo per affrescare la Cappella Sistina.

Altre opere di assoluto valore nella Cappella del Corporale nell’adiacente Museo dell’opera del Duomo. Statue, dipinti, monili, e la stupenda Libreria Albèri. Tornando nel Duomo, accanto al fonte battesimale è ben visibile una Madonna con il Bambino affrescata da Gentile da Fabriano nel 1425. Colpiscono la scultura dell’Annunciazione, di Francesco Mochi, e altre 24 imponenti collocate successivamente.

Nei registri dei camerlenghi incaricati di contabilizzare le spese per la cotruzione del Duomo venivano scrupolosamente registrate entrate e uscite. In queste righe si riporta un pagamento in vino di Orvieto a Luca Signorelli e alla sua squadra per i lavori eseguiti. Archivio dell’Opera del Duomo [ph. Gianfranco Podestà]

La cattedrale di Orvieto è un esempio forse unico di sintesi perfettamente armonica fra stili architettonici e artistici, in ragione anche del tempo trascorso dalla posa della prima pietra (1290) e il termine dei lavori, nel XVI secolo, con la realizzazione delle guglie laterali ad opera di Ippolito Scalza.

Tante mani, tanto ingegno, tante menti e un impegno economico molto consistente. Che però veniva puntualmente contabilizzato nei libri dei camerlenghi del Duomo. E – lo leggiamo con un po’ di stupore (o forse invidia?) – i pagamenti spesso comprendevano forniture di ottimo vino di Orvieto. Non poteva esserci incipit migliore per iniziare il nostro viaggio fra storia e viticoltura.

Templari ed etruschi a custodia di vini tipici

Sopra un bel colle a Bardano, un pugno di chilometri da Orvieto, si trova la Cantina Neri. Una posizione eccellente per le vigne, ma anche un presidio ideale per controllare importanti vie di comunicazione. Per questo vi si insediarono comunità etrusche e, in epoche più recenti, i cavalieri Templari. Già salendo verso l’azienda un edificio dallo strano profilo turrito colpisce l’occhio. Si tratta del Donjon una casa-forte posta a protezione della Precettoria templare, in seguito modificata. E pure nella sede stessa della cantina è possibile riconoscere le parti murarie appartenute al Casino Viti, altro caposaldo difensivo dell’ordine.

La zona di Orvieto è nota soprattutto per i vini bianchi. Ma i rossi sono altrettanto interessanti. Un esempio è il Rosso dei Neri, dell’omonima cantina [foto shutterstock]

La famiglia Neri negli anni ’50 acquista la tenuta con circa 42 ettari di terreno, tra vigna e ulivi, dedicandosi ai coltivi. A metà degli anni 2000, con l’ingresso in azienda del figlio Enrico, si decide di vinificare parte dell’uva prodotta secondo principi ben saldi. Puntare alla qualità esaltando le varietà locali, da millenni presenti in territorio umbro. E poi l’impegno verso l’ambiente e il rispetto per la natura in ogni fase della produzione. Con queste premesse, i risultati non potevano essere che lusinghieri.

Diverse le etichette proposte, con alcune citazioni d’obbligo. Come l’orvieto classico superiore Cà Viti, da uve Grechetto e Trebbiano meticolosamente selezionate tra gli appezzamenti più vocati e dalle piante più vecchie. O il Grechetto Vardano, vitigno presente sulla collina di Bardano sin dall’antichità. Vendemmiato tardivamente per un vino strutturato, minerale, piacevolmente morbido.

Un luogo molto particolare e suggestivo per l’affinamento in botte: un’autentica tomba etrusca, presso la tenuta Neri [ph. Gianfranco Podestà]

E per chi vuole andare oltre il bianco, un originale Rosso dei Neri, in cui diversi vitigni classici, come Merlot, Cabernet Sauvignon, Montepulciano si uniscono per restituire l’impronta esclusiva di una terra generosa. Molte le esperienze di assaggio possibili, con degustazioni dei vini aziendali e anche di olio EVO e salumi home made, accanto a una interessante selezione di prodotti locali. Una raccomandazione: assolutamente da visitare la cantina per le botti ricavata in un’autentica tomba etrusca

Cantine Neri

Una Residenza storica per vivere la campagna e la vigna orvietana

La facciata della Locanda Palazzone: elegante edificio medievale in piena campagna [ph. Gianfranco Podestà]

L’appassionato sa bene che il vino è messaggero del territorio. Nell’orvietano la scelta di produttori da conoscere è molto ampia. Alcuni però si segnalano per caratteri esclusivi. È il caso ad esempio di Locanda Palazzone, residenza storica di epoca medievale ubicata non lontano da Rocca Ripesena nella zona a nord-ovest di Orvieto. Le peculiarità dell’edificio fanno pensare alle architetture civili signorili più significative del tardo Duecento. In più vanta una ristrutturazione interna di rara eleganza, arricchita da opere dell’artista Livio Orazio Valentini, padre della proprietaria.

La Locanda offre ospitalità e una calorosa accoglienza, con colazioni del mattino sontuose a base fra l’altro di dolci fatti in casa e prodotti locali, come yogurt di capra e pecora. Nei mesi caldi un’allettante piscina esterna immersa nel verde a un passo dalle vigne è a disposizione. Diverse le opportunità di assaggiare i vini prodotti dall’azienda. Le degustazioni si possono svolgere nei comodi locali dell’enoteca e del lounge oppure in un ambiente insolito e affascinante: la Grotta del Musco. Situata in un bosco di castagni, veniva utilizzata già dagli Etruschi per la vinificazione, e via via di generazione in generazione, fino alla famiglia Dubini, che ancora la fa rivivere.

Alla Locanda Palazzone cucina del territorio, con piatti della tradizione e proposte innovative. Il segreto però sono i prodotti genuini, come gli ortaggi coltivati in proprio e uno strepitoso olio EVO della casa: poche gocce impreziosiscono ogni piatto [ph. Gianfranco Podestà]

Perfetto l’accostamento wine con la cucina del Palazzone: piatti della tradizione reinterpretati in chiave innovativa. Stagionalità e sostenibilità ambientale nella scelta dei prodotti qui non sono un semplice slogan e si avvalgono dell’orto di casa. I vini riflettono passione per la terra e intento di valorizzare le tipicità territoriali anche facendo rete con altri produttori. Da sempre l’azienda lavora in regime di agricoltura biologica, più per tradizione che per scelta.

Nei vigneti della Locanda Palazzone viene ancora mantenuto vivo qualche esempio di “Vite maritata”, antichissimo metodo di coltivazione che prevede la cresita della vite sul fusto di un albero, in genere l’olmo [ph. Gianfranco Podestà]

Fra le chicche l’orvieto classico superiore Campo del Guardiano, dalla grande capacità d’invecchiamento: provare una verticale per credere. E poi il Musco, in onore della grotta del vino, da uvaggi provenienti da un pezzo di vigna che porta sul filare il Procanico, il Verdello e la Malvasia come era usanza un tempo. Per gli ospiti eleganti suite e una serie di esperienze molto interessanti, come ricerca del tartufo, trekking e bike tour.  

Locanda Palazzone

L’uomo dei sogni in cantina

Il castello non c’era, almeno fisicamente. Ma era nella mente del suo creatore. E oggi, dopo anni di progettazione e lavoro eccolo qui. A Ficulle, una delle zone vinicole più vocate d’Umbria. Ci voleva un sognatore per arrivare alla realizzazione di questo edificio che esprime la solidità delle radici e contemporaneamente leggerezza e gioia di vivere. E si integra armoniosamente con il paesaggio, dipinto da vigneti e uliveti.

Il Castel Noha circondato dai vigneti della tenuta. A Ficulle, zona privilegiata per la viticoltura [courtesy Castel Noha]

Proviene da una famiglia di viticoltori attivi in Abruzzo dal 1861 Valentino Cirulli, l’ideatore di Castel Noha (dal nome della famosa cantante israeliana). Esperto biologo ed enologo, ma soprattutto instancabile creativo, partendo dai poderi abruzzesi D’Avalos, ha espanso l’attività aziendale oltre all’Umbria anche in Lazio, con una nuova cantina nei pressi di Roma.

A Castel Noha, dopo un’accurata analisi pedologica e chimica del terreno, accanto ai vitigni della tradizione regionale come, per esempio, Sangiovese, Grechetto e Malvasia, sono stati impiantati vitigni a bacca rossa più noti a livello internazionale. Parliamo di Merlot, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, e anche bianchi, quali Chardonnay, Traminer e incrocio Manzoni. La produzione in cantina si giova di tecnologie d’avanguardia, capaci di esprimere l’estro di Cirulli.

La cantina di Castel Noha è quanto di più moderno ed evoluto, ma il legno è ancora un materiale insostituibile. Tutto serve per assecondare la creatività di Valentino Cirulli [courtesy Castel Noha]

Nelle sue stesse parole si coglie il senso di queste scelte: “Un’interpretazione internazionale che trova una sua identità locale nel paesaggio senza tempo delle colline umbre e che mi ha ispirato la creazione di vini che portassero un messaggio di felicità, pace e armonia. Mi riferisco al Ginepreta, al Ritorto e all’Hedonè che traggono ispirazione dal territorio, al Malala e a Il Dialogo.”

Alla prova del bicchiere emergono caratteri sorprendenti, che denotano una personalità marcata e sanno raccogliere premi e prestigiosi riconoscimenti, da Wine Spectator a Bibenda, da Decanter a Gambero Rosso. Gli assaggi si tengono nell’enoteca e nelle ampie sale di degustazione, organizzate negli spazi attorno al suggestivo chiostro interno d’ispirazione francescana. Dotato di una cucina professionale, Castel Noha offrirà prossimamente anche ospitalità in una foresteria.

Castel Noha

Un cuore green nel verde

Come si è detto all’inizio del nostro viaggio l’enoturismo nelle terre orvietane e al confine con la Toscana è sempre un percorso di arricchimento e scoperta, che va molto al di là del vino. Ancora in territorio di Ficulle, con la rupe di Orvieto sullo sfondo, entriamo in un podere circondato da una campagna sfavillante di colline con vigne, ulivi, boschi, prati e coltivi. La società agricola Vitalonga lavora al servizio della natura e della conoscenza. Il metodo biologico viene utilizzato sia per il vino che per l’olio e sono stati realizzati interessanti progetti innovativi sotto la sigla Horti Vitalonga, definiti esercizio di memoria e futuro.

Ancora un esempio di vite maritata negli orti “didattici” Vitalonga [courtesy Vitalonga]

Si tratta di una serie di orti concepiti secondo i canoni dei monasteri Benedettini: horti, pomaria (frutteti), viridaria (giardini alberati), erbaria (erbari). Da qui lo stimolo per un futuro diverso, in armonia (con la) e nel rispetto della natura. La produzione enologica si giova di terreni con caratteristiche diverse, da cui spesso affiorano conchiglie preistoriche (oltre che ottimi tartufi), perché in queste contrade in un tempo lontanissimo c’era il mare.

E il legame con il passato, la civiltà etrusca e i suoi misteri è mantenuto ben vivo. Le grotte in cui vinificavano sono ancora lì, e il sistema di impianto delle viti maritate (fatte crescere lungo il tronco di un albero, spesso l’olmo) è stato riprodotto in piccolo appezzamento. Visitando il podere Vitalonga si entra in un “Parco della Viticultura” (Etrurian wine park), in cui andare alle origini del vino e della biodiversità che lo arricchisce quando la terra e il paesaggio sono trattati con rispetto.

L’Osteria di Vitalonga offre degustazioni di vini di produzione propria e piatti del territorio, dove in stagione dominano funghi e tartufi a Km zero [ph. Gianfranco Podestà]

Poi c’è il frutto di tanto impegno, da assaporare stappando e gustando prodotti del territorio e piatti della tradizione nell’accogliente Osteria. Diverse le formule proposte, ma rinunciare alle preparazioni della cucina sarebbe un peccato, specie in periodo di funghi e tartufi, davvero a Km zero. Nel bicchiere ci saranno i vini che danno lustro alla casa: Vitalonga Chardonnay, Vitalonga Rosè Biologico, Montenibbio Igt Rosso, Terra di Confine Igt Rosso, Phiculle Igt Rosso.  Possibilità di soggiornare nel bel Casale Vigneria, nella parte più alta della tenuta, immersi nel verde, lontani da tutto: solo quiete e un panorama fantastico.

Tenuta Vitalonga

I ragazzi che svelarono i misteri di Narni sotterranea

Si dice sia il centro geograficod’Italia.  Narni dalla sua collina domina l’ultimo tratto della Valnerina, a un passo dal confine laziale. L’architettura medievale connota l’antico centro, ancora accessibile attraverso le porte cittadine. È bella e vivace, e vanta iniziative culturali ed eventi di grande richiamo, come la Corsa all’Anello, il Narnia Festival, l’International Festival Luci della Ribalta e Narni Città Teatro. Tutta da visitare e conoscere tra piazze, palazzi, chiese, fino alla maestosa Rocca di Albornoz.

La squadra degli scapestrati aspiranti speleologi a cui si deve la scoperta di Narni sotterranea nel 1979 [ph. riproduzione Gianfranco Podestà]

Noi però vogliamo raccontare una storia. Quella di un gruppo di ragazzi alle prime armi con la speleologia ma appassionatissimi che, appena raccolti tre soldi per una minima attrezzatura, non vedono l’ora di provarla. Si calano da una delle mura della città in un cortile sottostante, finendo nell’orto di una proprietà privata. L’anziano proprietario si indispettisce non poco anche perché non capisce in cosa diavolo si stiano cimentando i ragazzi.

Dopo un po’ di spiegazioni gli viene un’idea: se proprio sono interessati a cavità e antri che dessero un’occhiata a un buco alla base del muro, quasi completamente occluso da mattoni e detriti. È il 1979, e ha così inizio la scoperta, complessa, avventurosa e avvincente di Narni Sotterranea. Non certo così estesa e antica come il reticolo scavato nella rupe di Orvieto, ma molto interessante.

Narni sotterranea. L’inquietante “stanza dei tormenti” utilizzata dall’inquisizione dello Stato Pontificio [ph. Gianfranco Podestà]

Gli ambienti riportati alla luce sono attigui al complesso conventuale di S. Domenico. Scendendo si accede a una piccola chiesa del XII secolo, che conserva affreschi tra i più antichi della città. Un pavimento vetrato mostra i recenti ritrovamenti archeologici per poi passare in un locale con una cisterna romana, probabile resto di una domus. Tramite un corridoio, si giunge in una grande sala, dove avevano luogo gli interrogatori del Tribunale dell’Inquisizione. Quest’ambiente è chiamato Stanza dei Tormenti nei documenti ritrovati negli Archivi Vaticani e al Trinity College di Dublino.

Il luogo più affascinante e misterioso è però la piccola cella adiacente. Segni e graffiti sulle pareti raccontano le sofferenze patite dagli inquisiti. Gran parte sono opera di tale Giuseppe Andrea Lombardini e risalgono alla seconda metà del ‘700. Durante la sua detenzione, voluta dal Tribunale del Sant’Uffizio, lasciò una testimonianza eccezionale riguardo a tematiche alchemiche, esoteriche e massoniche. Ancora oggi scritte e simboli non sono stati completamente decifrati. La visita finisce passando per un’altra piccola stanza, con i resti di una giovane donna, per poi tornare alla sala d’ingresso.

Nella piccola cella alcuni simboli e le iscrizioni di Giuseppe Andrea Lombardini, qui recluso a metà 700. Ancora in parte non decifrati [ph. Gianfranco Podestà]

A pochi fortunati, come chi scrive, è stata riservata un’uscita dal luogo oscuro degna di un film di Indiana Jones o di un libro di Don Brown. Da una porticina direttamente sul palcoscenico dell’auditorium ricavato nell’ex Chiesa di San Domenico, mentre tecnici e regia, indifferenti, lavoravano all’allestimento di uno spettacolo. Come se il passato e il presente trovassero qui una finestra spazio-temporale che la magia della rappresentazione continua a tenere aperta.

Narni Sotterranea

Alla ricerca dei vitigni perduti

Ancora nell’estremo lembo meridionale d’Umbria, eccoci in territorio di Amelia, altra cittadina storica che merita una visita. Ma noi siamo arrivati per conoscere la famiglia Zanchi, da cinquant’anni impegnata a rendere giustizia alla viticoltura locale, attraverso un certosino lavoro di recupero e valorizzazione di vitigni storici e autoctoni ormai caduti nell’oblio. Tre generazioni si sono dedicate alla selezione delle migliori specie, creando vini autentici, custodi delle tradizioni ma allo stesso tempo evoluti dalla continua ricerca in vigna e in cantina.

La cura scrupolosa e la passione per i vitigni autoctoni hanno mantenuto vive e produttive piante di oltre cinquant’anni nei vigneti Zanchi [ph. Gianfranco Podestà]

Dal capostipite Licurgo Zanchi, che nel 1970 acquistò un antico casale fra queste colline, oggi siamo alle giovani sorelle Flores e Flaviana (con il genero Mario). Ma ancora ben presenti e attivi sono il padre Leonardo con la moglie Annamaria, che hanno strutturato l’azienda, sempre fedele all’idea di creare etichette il più possibile rappresentative del territorio, esaltando le caratteristiche dei diversi vitigni. Come il Ciliegiolo vinificato in purezza, il Grechetto e l’Aleatico, ma anche la Malvasia, il Trebbiano e il Sangiovese. E poi basse rese per ettaro, raccolta a mano e vinificazione poco interventista.

Da anni Leonardo Zanchi conduce un lavoro di ricerca sul patrimonio varietale viticolo delle colline di Amelia. Con l’aiuto di esperti e grazie alle molte testimonianze di anziani, ha portato alla individuazione di ceppi ormai in via di estinzione, caduti in disuso. In collaborazione con la Facolta’ di Agraria dell’Universita’ di Perugia, si è giunti al vigneto sperimentale, impiantato nel 2008, con l’obiettivo di valutare le attitudini agronomiche ed enologiche dei “ceppi” raccolti sul territorio del Comune di Amelia. Una visita alle cantine Zanchi è di fatto anche un’esperienza di “archeologia viticola”, da farsi attraversando i filari immersi nell’ameno paesaggio collinare.

Jna delle botti in cui riposa il possente Sciurio, uno dei vini di punta delle cantine Zanchi [ph. Gianfranco Podestà]

Ma poi ci sono gli assaggi, tutti interessanti, soprattutto per la schiettezza e peculiarità dei vini.  Una menzione a parte per Il Ciliegiolo Antichi Cloni, un giovane gagliardo da vigne vecchie e il possente Sciurio, Amelia Rosso Riserva DOC, fra i rossi. Nei bianchi il Trebbiano Vignavecchia IGT, un regalo delle vigne più antiche e la Malvasia Antichi Cloni, un recupero importante del vitigno tradizionale e raro di Amelia. Dall’azienda anche grappa e ottimo olio EVO, tra cui quello da un singolo cultivar, la piccola e preziosa produzione di monovarietale Rajo, fruttato al gusto piccante e delicatamente amaro.

Cantine Zanchi

L’antica fabbrica del vetro e il vino del Sovrano Ordine

Nel suggestivo borgo di Piegaro la fabbricazione del vetro è una tradizione che risale al XIII secolo. Il museo dedicato a questo materiale duttile e insostituibile è stato allestito proprio nella vecchia vetreria, interessante esempio di archeologia industriale, dismessa nel 1968. Ancora ben visibili sono i diversi ambienti di lavoro, compresa la parte basale della fornace, in cui venne appositamente lasciata l’ultima colata prima della chiusura.

Il curioso fiasco con lo scomparto per il ghiaccio, un tempo prodotto nelle vetrerie di Piegaro [ph. Gianfranco Podestà]

Attrezzi di diverse epoche raccontano l’evoluzione delle tecniche, in cui l’uomo aveva sempre un ruolo da protagonista, seppure gradualmente supportato da apparati più moderni come gli stampi. Diverse tipologie di manufatti usciti dalle fornaci piegaresi sono in mostra, alcuni piuttosto originali. Come il fiasco con lo scomparto per il ghiaccio, antesignano della glacette, o la mitica bottiglietta per la gassosa con il tappo a biglia.

Tra i pezzi di maggior pregio ne figurano alcuni appartenuti al servizio da tavola della Famiglia Misciattelli (XIX secolo), che danno conto dell’abilità dei vetrai di Piegaro. Una sezione è poi dedicata all’impagliatura a mano di fiaschi e damigiane, in cui erano impegnate soprattutto le donne (e talvolta i bambini), molto abili e infaticabili.

Museo del Vetro Piegaro

I Cavalieri che fanno l’impresa

Anche se volessimo evitarla (e non è il nostro caso), la Storia busserebbe sempre alla nostra porta mentre scopriamo grandi vini umbri. Il Castello di Magione fu costruito nel XII secolo con la funzione di ospedale per i pellegrini in viaggio per Roma o Gerusalemme. La produzione del vino ha avuto inizio nel Medioevo, e insieme ai cerali e all’olio rappresenta un’eccellenza del territorio

Il Castello di Magione quasi intimidisce per l’aspetto austero e l’aura dei Cavalieri di Malta. Ma basta un buon bicchiere di vino e subito torna l’allegria [ph. Gianfranco Podestà]

Lavori di sopraelevazione nel ‘300 diedero all’edificio i caratteri attuali di un fortilizio, compatto e possente.  Entrando una corte circondata dagli archi ornati da drappi con l’inconfondibile croce di Malta lascia intuire che siamo al cospetto di un luogo associato al Sovrano Ordine Militare. Così è infatti. L’impegno dell’antichissima istituzione per la viticoltura è presente non solo qui, in Umbria, ma anche con le tenute in Veneto, di Villa Giustiniani e in Friuli, di Villa Bernarda.

L’austerità del Castello di Magione fa presagire un luogo di vicende importanti. Una targa del cortile ricorda un fatto narrato dal Macchiavelli ne Il principe, quando nel 1502 vi si tenne la congiura ordita da alcuni nobili e dal cardinale Orsini ai danni di Cesare Borgia. Nella cappella dedicata a San Giovanni Battista, in stile romanico, piccola e suggestiva, si conservano due affreschi della scuola del Pinturicchio (XVI sec.). Gli incontri con la vasta e pregiata produzione vinicola si tengono nella cantina storica (fra le botti di affinamento) e nelle altre sale del castello.

La produzione del castello di Magione comprende vini che ricadono nella DOC Colli del Trasimeno [ph. Gianfranco Podestà]

I vini locali ricadono nella DOC “Colli del Trasimeno” da vigne coltivate sulle colline a ridosso del lago. A bacca rossa, Pinot Nero, Merlot, Gamay, Cabernet Sauvignon, Sangiovese e Canaiolo. A bacca bianca, in prevalenza Grechetto, Chardonnay, Sauvignon Blanc e Trebbiano. Sempre dall’Umbria, vini prodotti in zona Torgiano DOC. Sorsi di storia in una cornice speciale.

Castello di Magione

In direzione ostinata e coerente

Si respira aria di lago da questa sommità. In basso si staglia il perimetro inconfondibilmente vulcanico di quello di Chiusi, ma solo a una manciata di chilometri c’è lo specchio lucente del Lago Trasimeno. Porta un cognome che pare uno scioglilingua e ha idee ben chiare. Nicola Chiucchiurlotto è Madrevite e Madrevite, azienda agricola e vinicole, è Nicola Chiucchiurlotto.

Le degustazioni da Madrevite sono accompagnate da piatti a base di diversi prodotti aziendali. Qui dei portentosi Pici all’Aglione, una varietà di aglio tipica di taglia grande profumata e dolcissima [ph. Gianfranco Podestà]

Questa è la sintesi della totale identificazione tra l’azienda ed il suo fondatore. Anche se in realtà Nicola è vignaiolo per vocazione ed appartenente ad una famiglia i cui membri lo sono da tre intere generazioni. Nel suo lavoro, e in particolare nella viticoltura, persegue da sempre l’unicità, intesa come naturale risultato di un impegno costante e consapevole, al fine di preservare ciò che già si possiede.

Perché “… la natura fa il primo passo, sta poi a noi sviluppare ciò che di prezioso ha saputo custodire. I miei vini sono sinceri, raccontano l’amore e la dedizione del lavoro di ogni giorno”.  Da Madrevite si viene per degustare bottiglie di spiccata personalità e, last but not least, assaggiare piatti e prodotti fatti in casa, tra cui la gustosa Fagiolina del Trasimeno, presidio Slow Food. Sapori ruspanti che profumano di terra amata.

Vini sinceri, tuttaltro che scontati ed un gran gusto nelle etichette [ph. Gianfranco Podestà]

Le uve coltivate sono Gamay del Trasimeno, Trebbiano Spoletino, Grechetto, Sangiovese e Syrah: un patrimonio enologico fortemente identitario. All’assaggio tutto ciò viene confermato. Preferenze personalissime: fra i bianchi il Reminore, con la vivace freschezza del Trebbiano Spoletino. Fra i rossi i Gamay del Trasimeno (vitigno tra l’altro parente stretto dell’omonimo valdostano e del sardissimo Cannonau), soprattutto il C’osa, di notevole stoffa. Belle le etichette, rimarchevole lo stile “realismo socialista” del Capofoco, un austero Montepulciano. Da possedere, fosse anche solo per guardarselo.

Azienda Agricola Madrevite

Castiglione del Lago, borgo incantato

Il nostro viaggio fra storia e vino di questa mirabile porzione di Umbria finisce… in acqua. Ma nel modo migliore. Castiglione del Lago, sul Trasimeno, è una piccola perla, non a caso inserita fra i Borghi più belli d’Italia. Tutta la parte antica, con tre porte medievali ancora utilizzate, è ricca di angoli interessanti. Spiccano le mura e la Rocca, detta del Leone, formata da cinque torri.  L’edificio più noto e pregiato è il palazzo della Corgna.

Il camminamento coperto che dal palazzo della Corgna conduce alla rocca di Castiglione del Lago, sul Trasimeno [ph. Gianfranco Podestà]

Edificato a metà del Cinquecento, divenne residenza della famiglia Corgna nella capitale del marchesato. E’ formato da quattro piani, ma la parte più interessante si trova al primo,  con otto sale caratterizzate dagli affreschi dipinti da Niccolò Circignani detto il Pomarancio, e la sua equipe. Narrano tematiche diverse, e una le gesta dell’avventuroso Ascanio Corgna, una vera “pellaccia” come si direbbe oggi.

La visita comprende poi l’accesso allo stretto camminamento coperto lungo le mura per raggiungere la Rocca Medievale e godere di un panorama grandioso sul lago e il suo territorio. Nello spiazzo all’interno delle mura si svolgono d’estate numerosi spettacoli, in una contesto spontaneamente scenognafico.

Il grande e indimentica Totò in una delle locandine della mostra “Cinema dipinto e storie di sale salvate e perdute” [ph. Gianfranco Podestà]

L’ultimo saluto a queste terre e ai suoi grandi prodotti lo affidiamo, per analogia, al grande Totò, che ci osserva sornione dalla locandina di un vecchio film anni ’50. Fa parte della collezione di bozzetti originali dei più famosi cartellonisti del cinema italiano, in mostra a Palazzo Corgna fino al 22 gennaio 2023. Si intitola “Cinema dipinto e storie di sale salvate e perdute”. Così, alle sale cinematografiche che continuano ad alimentare i nostri sogni dedichiamo il brindisi di commiato.

Palazzo della Corgna

Movimento Turismo del Vino Umbria (Presidente Giovanni Dubini)

Testo e foto di Gianfranco Podestà |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com