[AMBIENTE] Mare d’amare, anche a tavola

La crescita demografica della popolazione mondiale, la conseguente diminuzione delle aree coltivabili,i fenomeni di desertificazione, contribuiscono a considerare mari e oceani come fonte principale di alimentazione. Da utilizzare e preservare con attenzione.

I mari e gli oceani sono e saranno sempre di più un immenso granaio liquido. Complice il progressivo incremento demografico, che porterà la popolazione mondiale dagli attuali 7 miliardi ai  9 previsti nel 2040, e la conseguente necessità di individuare nuove aree urbane,  la superficie destinata alle coltivazioni e all’allevamento si restringerà sempre di più. L’effetto combinato dei due fenomeni  impone la ricerca di nuove soluzioni . Una può essere individuata nell’aumento della produttività delle superfici coltivabili, e qui entrano in gioco la scienza e la ricerca, essenzialmente chimica, biologia e genetica,  per modificare la composizione dei terreni con gli elementi indispensabili , rendere più resistenti  e meno deperibili i prodotti finali, per esempio con l’utilizzo degli OGM. Anche se, data la mancanza di statistiche di lungo periodo, nessuno può assicurare che tali pratiche non comportino rischi per la salute. Un altro importante aspetto è giocato dal clima. Il surriscaldamento della Terra, dovuto soprattutto ai gas serra, effetto delle nostre  sconsiderate emissioni, ha  portato alla progressiva desertificazione di molte regioni aride e secche del pianeta, che costituiscono il 50% delle terre emerse, in cui vive oltre 1 miliardo di abitanti.


Il continente più colpito è l’Africa, dove si calcola che i 2/3 dei terreni coltivati siano a rischio. Una seconda soluzione è rivolgere altrove la ricerca di nuove fonti alimentari. Oltre il 70 % della Terra è coperto da acqua, potenzialmente una riserva, se non infinita, certo sovrabbondante rispetto alle necessità di alimentazione umana. Dal mare si ricavano proteine da pesci, molluschi e crostacei e vitamine, sali minerali, carboidrati e fibre dalle alghe. Certo anche l’ambiente marino ha diverse fragilità e bisogno di attenzioni. Accanto ai rischi dovuti a fenomeni naturali, come per esempio el niño (ENSO), che provoca periodicamente oscillazioni notevoli della temperatura dell’acqua e della concentrazione di plancton nell’Oceano Pacifico centrale, con effetti anche disastrosi sulla fauna ittica, ve ne sono altri imputabili all’uomo. Come gli sversamenti in mare di inquinanti e i naufragi di smisurati oil tanker, che stendono sulla superficie marina un velo di idrocarburi, che impedisce l’ossigenazione di larghi tratti di mare. O ancora come la pesca indiscriminata che sfrutta metodi artigianali, ma altamente distruttivi come bombe o scosse elettriche o più tecnologici, con reti a strascico, a maglie fitte, lunghe chilometri, oppure i sonar per individuare i banchi di pesce, che vengono poi agevolmente catturati. Greenpeace ha messo online un video shock per denunciare la pratica della pesca al tonno tramite FAD (sistemi di aggregazione per pesci), utilizzata dai pescherecci  coreani che, insieme ai tonni, catturano molte altre specie non commerciali come squali, o di taglia non adatta, attuando vere e proprie stragi con depauperamento generalizzato della specie. Secondo uno studio apparso su  Proceedings of the National Academy of Science (Pnas) negli ultimi 50 anni la popolazione dei tonni è diminuita del 60%. Esistono anche paesi virtuosi in completa controtendenza.


In Olanda, per esempio, nel mese di marzo di quest’anno i pescatori di platessa e sogliola, pesci piatti che abbondano nei mari olandesi , uniti nella Organizzazione Cooperativa Pescatori, hanno ricevuto il certificato MSC (Marine Stewardship Council), che garantisce una pesca eseguita in modo ecosostenibile. Le loro sogliole e platesse sono al 100% pescate in modo tale da non compromettere l’equilibrio ambientale. La pesca di queste due specie è molto importante per il settore ittico olandese. Lo sviluppo e l’utilizzo di metodi di pesca ecosostenibili è stato incentivato da importanti investimenti.  Particolare attenzione è stata posta sulla riduzione del consumo di carburante dei pescherecci e sulla limitazione del movimento dei fondali marini. La stagione di riproduzione viene scrupolosamente rispettata e i pescatori stessi sono coinvolti attivamente nella ricerca scientifica, con l’analisi del contenuto del loro pescato. L’adozione  di reti a maglie larghe riduce il quantitativo di pesce indesiderato.


Il complesso di queste misure ha fatto sì che la presenza della  platessa nel Mare del Nord sia salita negli ultimi anni in modo continuo, tanto che ora si trova a un livello mai registrato prima, largamente oltre il minimo biologico di 230.000 tonnellate, sotto cui vengono prese misure di limitazione della pesca. Merito di tutto ciò è del regolamento pluriennale che i pescatori  si sono dati e del regolamento Europeo, che stabilisce le quote di pesca. Ovviamente il  livello delle specie viene influenzato dalla quantità di cibo disponibile e da episodi  climatologici, che ovviamente non si possono influenzare, ma il controllo dello sfruttamento ha già dato di per sé ottimi risultati. Grazie a queste metodologie ecosostenibili  la pesca nel Mare del Nord è tra le meno invasive per l’ambiente e consente di preservare in equilibrio l’habitat del pesce piatto e dove possibile migliorarlo. Più del 90% della platessa consumata in Italia proviene da navi olandesi che pescano nel Mare del Nord. Un pesce garantito  eco sostenibile per il consumatore responsabile.

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Testo di Federico Klausner  © RIPRODUZIONE RISERVATA | Foto web

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