
Il termine Grand Tour lo si trova adottato, in trascrizione francese, nel Voyage of Italy: or a Compleat Journey Trough Italy di Richard Lassels nel 1670, quando ormai il viaggio era un’

istituzione consolidata. Infatti, alla fine del XVII secolo, un letterato o un artista conosciuto poteva facilmente ottenere dal governo una borsa annuale di 300 sterline per un viaggio di perfezionamento all’estero. È proprio in Inghilterra che dopo l’università e gli Inns of Court il viaggio per l’Europa è considerato una meta finale di chi è destinato a divenire classe dirigente. Il viaggio inteso come completamento dell’educazione di un giovane aristocratico o di un ricco borghese non fu comunque accolto da tutti. L’Italia in particolare ancora nel Cinquecento “era detestata perché considerata un grave pericolo per il corpo e per l’anima. Era la patria di Machiavelli e quindi degli

atteggiamenti politici cinici e sovvertitori; ed era infine una minaccia costante della fermezza religiosa dei protestanti, esposti sempre al pericolo di rimanere abbagliati dagli splendori artistici della Chiesa controriformistica, sopraffati dalla magnificenza dei pontefici e dei cardinali. Il governo inglese cercava anzi, sia pure con scarso successo, di escludere Roma dall’itinerario che a un turista era permesso di seguire”. Fu comunque proprio nel Cinquecento che William Cecil, futuro Lord Burghley, come tesoriere della regina Elisabetta, intraprese per primo una deliberata politica di sostegno del viaggio all’estero per la formazione dei

diplomatici e della classe dirigente: ma il viaggio era visto ancora pericolosa avventura. Lo stesso Lord Burghley giudicava severamente gli esiti che ebbe lo stage sul figlio Thomas Cecil, che appariva ai suoi occhi “un perdigiorno ubriacone, buono solo a far da raccattapalle”. Il pedagogo Richard Mulcaster riteneva inutile correre i rischi probabili di un viaggio ed era del suo stesso avviso un severo censore come Roger Ascham: erano tempi in cui si andava diffondendo il detto “inglese italianato, diavolo incarnato”. Molti altri, al contrario, credevano che il viaggio fosse un’esperienza che conferiva

a chi lo intraprendeva coraggio, senso del comando, capacità di decisione, abilità nelle attività sportive e cavalleresche, gusto nelle belle arti. La disputa sul valore educativo del viaggio si trascinò per tutto il XVII secolo, quando ormai era divenuta una pratica unanimemente riconosciuta. Richard Hurd nei Dialogues on the uses of foreign travel del 1764 sottolineava che il profitto derivante da un viaggio era assai deludente rispetto alle aspettative. Non a caso Adam Smith in The Wealth of Nations (1776) sosteneva che l’unico vantaggio era dato dall’opportunità offerta dal viaggio di imparare le lingue: “per gli altri aspetti il giovane ritornava in patria più presuntuoso,

con meno principi, più dissipato e meno capace di ogni seria applicazione, sia nello studio che negli affari”. Per Oliver Goldsmith “i vantaggi che derivano dal viaggiare sono una maggiore apertura, l’abbandono dei pregiudizi nazionali ma il tempo così impiegato poteva essere meglio utilizzato in patria”. L’Italia nonostante i pregiudizi esercitò comunque una forte attrazione. La meta predestinata è Roma: la città santa ed i suoi Mirabilia urbis ma nel corso dei due secoli anche località meno frequenti negli itinerari – Parma, Ferrara, Ancona – saranno raggiunte dai viaggiatori inglesi. Assieme al

fascino esercitato dalla cultura sugli inglesi, ed in generale di quanti provenivano dai paesi del Nord, c’è il desiderio di luce, di sole, di natura rigogliosa che diventerà nel Settecento una dominante ricorrente. Il gusto dell’avventura con le montagne o il mare da attraversare, il rischio dei banditi e delle epidemie conferiscono un’aura di leggenda e d’avventura al viaggio che si colora di toni vividi. Ogni partenza è un sasso lanciato nello stagno della vita corrente, è un’impresa da ricordare tutta la vita di cui scrivere una volta rientrati in patria. In Italia il viaggiatore inglese arriva sul principio di settembre e a seconda del percorso seguito (via

mare da Marsiglia o Nizza, via terra da Moncenisio) le prime città che lo accolgono sono rispettivamente Genova o Torino. Segue Firenze raggiunta attraverso la via costiera Genova-Pisa o quella interna Torino-Milano-Bologna. Da Firenze si passa a Siena e a Viterbo e si giunge a Roma ai primi di novembre. Il soggiorno romano è il più lungo perché si assiste alle cerimonie del Natale, dell’anno nuovo e della Pasqua. A fine giugno si colloca l’escursione a Napoli, meta di ogni viaggio che si conclude, ancora nella metà del Settecento, in Campania. Sulla via del ritorno, sosta breve a Loreto, Ferrara, Padova e Venezia per la festa del Carnevale di febbraio. Vicenza e Verona sono le ultime città prima di tornare in patria che prevede, a seconda del luogo di destinazione, diverse uscite dalla Svizzera o attraverso la Francia.
Testo: Giovanna Scatena Foto: Archivio
Della stessa serie:
1 – Un tuffo nel passato: l’Italia del Grand Tour
3 – I francesi e il Grand Tour in Italia
4 – I tedeschi e il Grand Tour in Italia
5 – Il viaggio a piedi di Johann G. Seume
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