Di colpo, preso l’ennesimo tornante, come un’immagine da cartolina, Sarajevo mi si para davanti, in un colpo solo, e con uno sguardo riesco ad abbracciarla tutta. E’ una chiazza grigia da lontano: spartana, affossata tra ripide colline che paiono inghiottirla da un momento all’altro. Non spicca per grandiosità architettonica, ma non riesco a distogliere lo sguardo dal finestrino. Percorriamo tutta una strada sul crinale di un’altura che circonda la città e balza agli occhi il forte contrasto tra dei grattacieli del centro e la miriade di casette con tetto rosso sulle colline attorno, che sembrano le case di un presepe. L’impatto visivo è impressionante: intravedo la prima moschea stretta tra degli alberi e un capannone, ma mi accorgo che ce ne sono dappertutto. Provo a contarle, ma ad ogni buca centrata dall’autista perdo il conto, poi ci rinuncio, sono troppe.
Guardando meglio capisco che non sono tutte moschee: ci sono sinagoghe e chiese ortodosse, è come se tre civiltà diverse avessero voluto edificare allo stesso tempo nello stesso luogo. Il bus comincia a scendere una ripida strettoia dove passiamo a malapena solo perchè un contadino con il suo carro ci lascia passare, facendo cenno al mulo di fare un paio di passi più in là. Ora procediamo lungo un’arteria principale, tra macchine e fabbriche grigie; dal basso Sarajevo perde il suo carisma, ma è solo la periferia. I rilievi montagnosi che ci circondano sono claustrofobici, delimitano rigidamente lo spazio erigibile, ma la città non segue nessuna logica urbana, è tutto un caos di capannoni, edifici in cemento armato e aiuole qua e là.
Riguardo quelle torve colline che se ne stanno a poche centinaia di metri da me, silenziose, gobbe e raccolte in un silenzio minaccioso. Posso sentire il tuono delle cannonate serbe, vedere i cecchini che si muovono svelti tra gli alberi sparando ad ogni bersaglio mobile giù per le strade, e percepire il terrore di 700.000 mila abitanti stretti dalle morse del terrore. La Sarajevo internazionale delle olimpiadi invernali del 1984, la Sarajevo cinta d’assedio e tagliata fuori dal mondo, la Sarajevo dei bazar e dei teatri, la Sarajevo del genocidio e dei suoi morti per le strade. E’ sempre lo stesso luogo, la stessa anima, e io la sto percorrendo vent’anni dopo il massacro.
Tra il 5 aprile 1992 e il 29 febbraio 1996, circa 4000 tra bombe e granate piovvero sull’intera città causando 12.000 morti tra la popolazione civile e 50.000 feriti. Per quattro anni la città cessò di esistere, per quattro anni la dignità di un popolo fu calpestata, più che dalle armi, dal silente balletto della diplomazia internazionale che si rifiutava di ammettere quello che stava succedendo tra quelle montagne. La Bosnia è un libro di storia aperto all’umanità: i romani, gli ottomani, gli austroungarici, Tito, e lo sfaldamento della Jugoslavia. Bosnia Erzegovina è solo il terzo capitolo della guerra dei Balcani, un conflitto scoppiato in seno a un continente che stava cercando di dimenticare ancora l’ultima guerra mondiale e i crimini nazisti, e che fino all’ultimo provò ad ignorare un genocidio commesso sotto gli occhi degli osservatori delle Nazioni Uniti.
Sarajevo rappresenta la nuova vergogna del genere umano, la degenerazione perversa del nazionalismo estremo, il bestiale delirio che portò tre popoli convissuti pacificamente fino ad allora a una guerra etnica totale. Alcuni edifici conservano ancora i fori dei colpi di cannonata tra una finestra e l’altra, come cicatrici indelebili di un passato che nemmeno il cemento vuole scordare, cartine da tornasole di un odio piovuto sulla città senza tregua. In effetti non viaggio su un autobus turistico, ma mi rendo conto che sarebbe inutile farlo visto che da dove sono seduto ho tutto alla portata di uno sguardo. Ora la gente comincia a prepararsi raccogliendo borse e giacche, e proprio in quel momento sorge da dietro a un edificio in rovina il grattacielo dove ha sede il Parlamento Bosniaco.
Finalmente il bus si ferma e ne discendo con le gambe indolenzite e lo zaino a tracolla. Ha cominciato a piovigginare, ma non rende che l’atmosfera più suggestiva: Sarajevo non è un luogo che si appresti al cielo azzurro e le atmosfere vacanziere, me lo ricordano due giovani donne musulmane velate che camminano a passo svelto in direzione contraria. Ci dirigiamo verso l’ostello per posare i bagagli e cominciare ad esplorare. Dovevamo essere davvero vicini al centro perchè in pochissimo tempo giungiamo al fiume che taglia in due l’agglomerato.
La gente per le strade mi colpisce nuovamente, è un miscuglio di etnie e di genti di ogni età: il moderno si fonde con il vecchio in perfetta armonia, con tolleranza e criterio, come la cosa più naturale del mondo. Passano donne con l’Hijab sul capo, e ragazzine con minigonna, ci sono moschee con fedeli in preghiera, e di fronte bar pieni di giovani ortodossi come in un qualsiasi via di Milano. Anche per la strada è marcato il contrasto sociale del popolo bosniaco, qui come a Belgrado vedo passare suv tedeschi targati Cech Republic e automobili degli anni 90’, infangate, targate Romania. Ci si abitua presto a questi squilibri, la realtà circostante ti assuefà trascinandoti nella sua armonia culturale, che testiamo anche a tavola provando i cevapcici locali con pasulj, e confermando che da questi parti sono esperti di carne alla brace.
Il viaggio è stato lungo e con la sera cala anche una profonda stanchezza. Ci proviamo a trascinare verso una fortificazione posata in cima a un’altura per godere del panorama, fortunatamente ci viene in aiuto un anziano che ci fa salire sul suo pick up vedendoci in difficoltà nella scalata. La vista è uno spettacolo al tramonto, si riesce a vedere tutto senza girare il collo di un centimetro. Individuiamo uno per uno tutti i ponti, il grattacielo del parlamento, la Biblioteca nazionale, e diversi cimiteri incastonati tra le residenze private. Quando durante l’assedio fioccavano le cannonate da ogni parte, i morti non ricevevano nemmeno una sepoltura dignitosa e venivano riposti in fosse comuni. Dopo il conflitto furono ripristinate ed abbellite con lapidi bianche, non spostandosi di un centimetro da dove si trovavano. Oggi sono dei tristi monumenti commemorativi, dei luoghi di pianto per i familiari e punti di rilflessione per chi li attraversa. Scendendo dal castello ci passiamo in mezzo e leggiamo le incisioni sui marmi bianchi, inequivocabilmente registrano tutte le date tra il 1992 e il 1996. E’ uno spettacolo architettonico notevole, ma una macchina nera nella coscienza serbo-bosniaca.
L’ostello è pulito e moderno, gestito da una ragazza italo bosniaca, che avrà su per giù la mia età e parla abbastanza bene la nostra lingua. Ci da due dritte sulle restanti attrazioni turistiche di Sarajevo, ma non riesce a spiegarci come raggiungere la nostra metà principale: l’aeroporto cittadino. Anche in questo caso la notorietà del luogo è legata alla guerra balcanica. Quando l’Armata Popolare Jugoslavia circondò completamente la capitale, le Nazioni Unite riuscirono a strappare a Milosevic la concessione dell’aeroporto per ragioni umanitarie, ma nella realtà dei fatti restò totalmente sotto il controllo serbo per anno dopo anno. Celebre è il tunnel che venne scavato sotto le piste di decollo lungo 60 metri che lo collegava a un boschetto nascosto dalla radura, dove confluivano settimanalmente aiuti umanitari fuori dal controllo degli assedianti. Grazie a questo buco nel sottosuolo decine di civili riuscirono a salvarsi e migliaia di malati ad essere curati con medicinali provenienti dall’Europa.
Il problema è raggiungere l’aeroporto visto che apprendiamo non esiste un collegamento regolare dal centro cittadino. Ci viene in aiuto anche questa volta la fortuna che bussa alla porta dell’alberghetto alle 23 di sera. Sono Senad e Ermin, due studenti dell’Università che per arrotondare si offrono spontaneamente ai turisti negli alberghi per portarli in giro in macchina in cambio di compensi molto modesti. Cascano a fagiolo, anche se all’inizio siamo un po titubanti vista una strana fretta nel chiudere l’accordo. Preoccupazioni inutili, volevano solo portarsi a casa i clienti. Rimaniamo per il giorno dopo dal portone del palazzo la mattina presto, vado a dormire non troppo sicuro che verranno, ma anche questo dubbio lo sfatano la mattina successiva presentandosi puntualissimi. Montiamo sulla loro Toyota Verso e ci mettiamo in marcia tra il traffico scorrevole della capitale. Bisogna sfatare subito il luogo comune che nei paesi dell’est i giovani non parlano inglese bene, perchè non c’è nulla di più falso.
Sia a Belgrado che qui chiunque con cui avessimo interagito parlava un inglese più che decente, e non ci metterei la firma che in Italia valga lo stesso. Ci raccontiamo le solite cose, facciamo le classiche domande, e riceviamo le solite risposte, ma non è mai noiosa la chiacchierata. Sono cugini e abitano in un paese poco fuori chiamato Paricevici, uno dei due, Ermin, ha perso il papà nel 1992 quando aveva 3 anni, freddato da un cecchino serbo mentre andava a cercare di vendere della legna al mercato. Una storia tanto lontana dal nostro mondo che l’avevo sempre sentita nei documentari di guerra, mai ascoltata di persona, vi garantisco che non è piacevole. Durante il tragitto di 10 chilometri ci spiegano ogni palmo di città, sono due ottime guide in effetti. Riusciamo dal centro e ci avviciniamo alla meta a velocità costante, non abbiamo fretta di arrivare,e poi quelle casette sulle alture mi ipnotizzano. Il più giovane ci finisce di descrivere la vita sociale notturna dei ragazzi di Sarajevo, quando le ruote della macchina incontrano lo sterrato di una stradina di campagna, troppo stretta per un doppio senso e che ci spiegano si tratti di una scorciatoia.
Siamo arrivati, c’è così tanto spazio che parcheggiarla bene è superfluo. Sembra l’aeroporto di Cuneo, è così piccolo che riesco a vedere le persone camminare dall’altra parte della pista e intravedere delle sagome dentro la torre di controllo. C’è da pagare una piccola tariffa per visitare il museo, e vista la circostanza non battiamo ciglio. Entriamo nel prefabbricato, sa di chiuso, ma è piano di cimeli militari e mi dimentico di tutto. Maschere anti-gas, granate, divise della JNA, un casco blu delle NU, e mitragliatori Kalashnikov di fabbricazione russa. Accediamo pure al tunnel e lo percorriamo quasi in ginocchio da quanto è basso. E’ come me l’aspettavo: triste, interessante, angosciante, il mio compagno di viaggio è silenzioso, anche lui starà provando un po’ di smarrimento, glielo leggo sul volto. Un gruppo di giovani spagnoli rumoreggiano nella stanza dei filmati, richiamando l’attenzione di una guardia. In effetti le immagini che scorrono sono molto crude, ma purtroppo nient’altro che realtà. Incredibile sia successo tutto questo. Usciamo dal museo, Senad ed Ermin sono lì fuori ad aspettarci fumando una sigaretta. Mi chiedo quante volte abbiano portato ragazzi come noi a visitarlo, ormai sarà una monotona gita fuori porta. Li invitiamo a bere un caffè, li lasciamo una buona mancia, in fondo dopo un passato così atroce, essere insieme in un bar tutti e quattro a raccontarcele, è quasi un lusso.
Testo e foto di Stefano Pampuro RIPRODUZIONE RISERVATA © LATITUDESLIFE.COM
Caro lettore,
Latitudes è una testata indipendente, gratis e accessibile a tutti. Ogni giorno produciamo articoli e foto di qualità perché crediamo nel giornalismo come missione. La nostra è una voce libera, ma la scelta di non avere un editore forte cui dare conto comporta che i nostri proventi siano solo quelli della pubblicità, oggi in gravissima crisi. Per questo motivo ti chiediamo di supportarci, con una piccola donazione a partire da 1 euro.
Il tuo gesto ci permetterà di continuare a fare il nostro lavoro con la professionalità che ci ha sempre contraddistinto. E con lo stesso coraggio che ormai da 10 anni ci rende orgogliosi di quello facciamo. Grazie.