Viaggio in Sri Lanka alla scoperta di Colombo

Un viaggio comincia sempre da un’impressione, che in qualche modo prepara le nostre aspettative sul luogo che ci apprestiamo a conoscere: questo è il mio viaggio in Sri Lanka. La mia l’ha innescata la notte, lungo il percorso che dall’aeroporto di Bandaranaike porta a Colombo, la città più popolata dello Sri Lanka. Su questa via si succedono con costanza tutta una serie di altarini per i devoti buddhisti, i rari punti di luce ai lati dell’asfalto. Statue di Siddharta Gautama di varie dimensioni sembrano salutare i viaggiatori di passaggio, imponendo la propria benedizione con espressione placida e sorniona. Ho voluto leggerlo come un personale benvenuto da parte dell’isola, che mi onorava con gli omaggi della sua figura religiosa di maggiore seguito. Esausti, io e il mio compagno di viaggio abbiamo preso sonno al piano terra di una guest house pagata poche rupie nel quartiere di Kirulapone, tra i suoni della notte tropicale: ronzii di zanzare e frinire di grilli, spezzati con frequenza irregolare dal frastuono dei clacson dell’estroso traffico cittadino.

Al risveglio decidiamo di visitare il mercato di Pettah, e saliamo su uno dei tanti autobus che conducono al cuore più commerciale e popolare di Colombo. Il conducente guida spericolato dalla sua postazione coloratissima, tra cuscini fluo e scacciapensieri che gli dondolano sulla testa, evitando i tuk tuk che si infiltrano tra le corsie e intimidendo i pedoni che si scansano come saette al suo passaggio, vista la sua determinazione a procedere senza rallentare. Il mercato è un dedalo di viuzze che ti risucchia per alcune ore. I commercianti ci guardano curiosi, fanno domande, ci fermano spesso: il mio ragazzo, con il quale sto affrontando questo mese in giro per l’isola, è un francese di origine srilankese, e in molti si chiedono perché un “locale” rivesta il ruolo di turista in compagnia di una straniera. Sono divertita dall’atteggiamento delle persone: ci osservano con fare titubante, ma basta rispondere con un sorriso e l’espressione muta per restituirtene uno ancora più sincero.

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Dopo Pettah ci spostiamo in direzione della stupa di Sambodhi Chaitiya, ma mentre camminiamo per raggiungerla veniamo distratti da una scenetta singolare: lungo un muro di cinta c’è la statua di un leone con le fauci spalancate, e le persone scendono dall’autobus in corsa per metterci dentro una monetina, giungere le mani in segno di preghiera e risalire in tutta fretta sul mezzo che si sta allontanando. Ci avviciniamo, quando notiamo che si tratta dell’ingresso di un tempietto buddhista. Passeggiamo nel cortile per scattare qualche foto, e un monaco si avvicina chiedendoci qualcosa di noi. Si presenta: si chiama Pasan, viene dal Nepal, e sta studiando nella prestigiosa scuola di Buddhismo Theravada di Colombo. Data la confidenza che si è creata, decide di farci un regalo: aprire in via eccezionale la stupa che si dice contenga un osso di Buddha e che costituisce l’orgoglio della struttura. Dopodiché, ci invita a visitare la stanza dedicata alla contemplazione. “Vorreste meditare un po’?” ci chiede. Accettiamo, e lasciandoci guidare dalle sue indicazioni chiudiamo gli occhi, perdendo la concezione del tempo e uscendo dal tempio solo un’ora più tardi, con la serenità addosso e al polso un braccialetto di filo bianco, regalo di Pasan.

Prendiamo un tuk tuk e ci dirigiamo verso il maestoso tempio di Gangaramaya, proprio quando il sole comincia a calare. Al centro del complesso domina un enorme e antichissimo fico delle pagode. Un grande numero di fedeli, vestiti di bianco, si accosta alle radici dell’albero per versarvi dell’acqua da una scodella di metallo, poi si inchina per dedicargli una piccola preghiera. In un angolo, un monaco tiene un quaderno aperto davanti a sé e interroga un bambino – forse sui precetti del Buddhismo – ma questo non sembra conoscere le risposte, e si guarda intorno con aria vaga. Un gruppo di suonatori di tamburi si avvicina all’albero e dà il via a un ritmo concitato, che accompagna i movimenti di un gruppo di uomini, donne e bambini intenti ad avvolgere attorno al vecchio fico una lunga catena di fiori di gelsomino. Ce ne andiamo quando ormai è già buio, e gli officianti del rito di poco prima intonano un canto all’unisono.

Domani ci attende un treno, direzione Ambalangoda.

di Giulia Usai | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com